Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2011  giugno 29 Mercoledì calendario

SCOLA ARCIVESCOVO DI MILANO: «VI PARLERO’ DELLA VITA BUONA»

La prima cosa che colpisce di Angelo Scola, 69 anni, è come si sposino nella stessa persona il rigore dottrinario e il calore umano. Il nuovo arcivescovo di Milano, che a settembre subentrerà a Dionigi Tettamanzi, è un intellettuale, che ha tenuto testa a Joseph Ratzinger e a Urs von Balthasar nelle discussioni teologiche. Eppure ha un tratto gioviale, diretto, da uomo del popolo; quale è. «Vengo da una famiglia poverissima, e ne sono orgoglioso» ama ricordare. Suo padre e sua madre hanno vissuto tutta la vita a Malgrate, luogo manzoniano, in un appartamentino di 35 metri quadrati, nella vecchia corte di una grande fattoria: la stanza con la stufa economica faceva da cucina e da salotto; da lì si passava nella camera da letto dei genitori, «e in un bugigattolo dove dormivamo io e mio fratello». Sul lago di Como, Angelo Scola nasce il 7 novembre 1941. Suo padre Carlo faceva il camionista. Guidava una Fiat 626 che faceva al massimo 37 chilometri l’ ora. «All’ epoca non c’ era il servosterzo, papà doveva girare le ruote a forza di braccia. Gli erano venuti due muscoli così. Portò fino a Messina il prototipo del palo per l’ illuminazione dello Stretto, impiegando 17 giorni. Senza autostrade e senza telefono, non si sapeva mai quando sarebbe tornato. Si ammazzò di lavoro per farci studiare». La madre, Regina, molto religiosa - «per lei credere era come respirare» -, mandava i figli a distribuire il giornale dei preti, il Resegone. Il padre invece era di sinistra. Socialista marxista. «Io stesso tra i 14 e i 18 anni, durante gli anni del mio liceo - ha scritto Scola -, ero preso dall’ interesse per la politica in una maniera tale che l’ appartenenza alla Chiesa è come caduta in secondo piano. Ero talmente conquistato dai problemi sociali, politici - avevo una simpatia per i partiti marxisti perché il mio papà era impegnato nel partito socialista di Nenni, quando era massimalista - che questi prendevano il sopravvento su tutto il resto. Allora era come se Dio non ci fosse, come se la Chiesa non ci fosse, se Dio non contasse più. Mentre prima le domande più importanti della vita - Perché sono nato? Da dove vengo? Dove vado? Cosa sono al mondo a fare? Cosa vuol dire voler bene agli amici? Cosa vuol dire soffrire? Cosa vuol dire amare? - mi rodevano dentro, adesso le avevo messe a tacere. Era come se tutte queste cose non contassero più. Poi, grazie a Dio, alla fine del liceo ho trovato degli amici che invece vivevano in maniera più intensa tutto». Tra quegli amici c’ era un sacerdote che insegnava religione al liceo Berchet e aveva fondato Gioventù studentesca: don Luigi Giussani. Formatosi nell’ Azione Cattolica, Scola vive dal di dentro la fondazione e la crescita di Cl. Ma nessuno dei luoghi comuni evocati dagli avversari di Comunione e Liberazione lo riguarda. Non è settario, ha una visione aperta delle relazioni umane, è curioso delle persone e delle cose che non conosce. E il suo colore preferito non è il bianco né il nero, ma il grigio: da ragazzo è arrivato a contarne sul lago nove sfumature diverse; «è per questo che noi lacustri siamo un po’ crepuscolari, se non proprio romantici». Nella Chiesa non perde fiducia neppure nelle prove difficili. Vorrebbe diventare sacerdote, ma il seminario di Milano tergiversa, gli propone di aspettare, di fare prima il servizio militare. Allora Scola incontra un monsignore - Abele Conigli, mite sin dal nome, vescovo a Teramo - disposto a ordinarlo subito. E diventa prete lontano dalla sua diocesi, che ora, a oltre quarant’ anni di distanza, andrà a guidare. Laurea in Filosofia alla Cattolica, dottorato di Teologia a Friburgo. Un libro-intervista con von Balthasar, il più grande teologo del 1900, dall’ impegnativo titolo «Vagliate ogni cosa, trattenete ciò che è buono»; un saggio su Giussani, «Un pensiero sorgivo»; un pamphlet da Mondadori, «Buone ragioni per la vita in comune». La consuetudine con il suo maestro lo avvicina a un altro grande della Chiesa, il cardinale Joseph Ratzinger, che di tanto in tanto si ritrova con il fondatore di Cl per cenare e discutere di teologia alle Cappellette di San Luigi, il pensionato in piazza Santa Maria Maggiore a Roma dove Scola vive con il suo amico don Massimo Camisasca. Sono gli anni di Communio, la rivista con cui i teologi vicini a Ratzinger elaborano la loro visione del Concilio Vaticano II, attenta a evitare quelle che considerano deviazioni dall’ impronta di Giovanni XXIII e Paolo VI. Wojtyla lo stima al punto da volerlo rettore alla Lateranense, patriarca a Venezia, delegato alla relazione introduttiva del suo ultimo sinodo, così come lui era stato delegato di Montini. Da cardinale, Scola è andato costruendo in questi anni un proprio sistema di pensiero, dalle fondamenta ben piantate nei papati di Wojtyla e di Ratzinger, ma con forti elementi di autonomia. Un sistema incentrato attorno ad alcune parole-chiave. A partire dalla «vita buona». Due parole che tutti usiamo molto spesso, senza accostarle mai. La vita nella Roma di Fellini era «dolce». «La vita è bella», sostiene con ragione Roberto Benigni. «La bella vita» è il titolo del film che rivelò Paolo Virzì e Sabrina Ferilli. «Bella la vita» fu il primo libro di Lucio Dalla. Per Luciano Bianciardi la vita era semmai «agra». Fu «lunga» la vita di Marianna Ucria, raccontata da Dacia Maraini. Quasi mai si sente parlare di «vita buona». Scola usa questa espressione senza moralismo, come una chiave che apre tutte le porte, che dà un’ interpretazione della politica, del Sessantotto - sulle cui origini diede una lettura positiva tanto che Il manifesto lo definì «il cardinale beat» -, della scuola, della famiglia, del fine vita, dell’ amore. La sua idea è che il cristianesimo non penalizza le passioni, i desideri, financo gli istinti; anzi, esalta l’ umanità, la differenza tra uomo e donna, l’ attrazione per il bello. Un concetto fondamentale della «vita buona» è il «bell’ amore»: «Vivere la bellezza dell’ amore significa strappare la sessualità al dualismo tra spirito e corpo; come se trattenessimo la sessualità nell’ animalesco e poi a tratti avessimo spiritualissimi slanci di intenzione di bell’ amore». Scola rifiuta la distinzione tra Venere urania e Venere pandemia, pensa semmai come Pascal, quando diceva che «l’ uomo è a metà strada tra l’ animale e l’ angelo, ma deve stare bene attento a non guardare solo all’ uno o all’ altro; ognuno di noi, inscindibilmente uno di anima e di corpo, ha da fare i conti con la dimensione sessuale del proprio io per tutta la vita, dalla nascita sino alla morte». Come fecero i suoi genitori. Scola ama ricordare di aver visto «la verità e la bellezza dell’ amore nello sguardo del mio papà verso la mia mamma dopo 55 anni di matrimonio». E anche nella gioia con cui tre bambini traducevano al patriarca in visita nella loro casa i movimenti degli occhi del padre, malato di Sla. «Mi sono sentito un verme», commenterà Scola. Questa è per lui la vita buona: la forma più alta di libertà, in cui il voler essere e il dover essere coincidono - si vuol fare ciò che si deve fare -, animata dall’ amore per il bello, il bene, il vero, l’ eterno. Perché «non c’ è amore senza promessa, non c’ è promessa senza "per sempre", e non c’ è "per sempre" se non sino alla fine, sino e oltre la morte». Il nuovo arcivescovo di Milano ha introdotto nel mondo delle idee della Chiesa altri due concetti fondamentali. La «nuova laicità», quasi un manifesto del modo della Chiesa moderna di stare nella società e partecipare alla discussione e alle decisioni politiche: senza creare un legame con un partito, senza pretendere obbedienza, ma anche senza rinunciare a esprimere la propria posizione e ad auspicare che il legislatore la recepisca. E il «meticciato» - non una scelta, ma un fenomeno storico con cui fare i conti - agli antipodi sia dei retori del relativismo culturale sia dei nemici della società multietnica. Il mondo del «meticciato» è invece una società integrata in cui si parlano l’ italiano, l’ arabo, l’ inglese, il francese e l’ urdu, le lingue in cui è stampata la rivista fondata da Scola, Oasis. Il lavoro culturale di questi anni a Venezia - il Marcianum, la collaborazione con la Fondazione Cini, i frequenti viaggi all’ estero in particolare in Medio Oriente - si è accompagnato a un fitto dialogo con i giovani su Internet e al lungo viaggio nelle parrocchie veneziane. Poi, ogni sera, prima di andare a dormire, il cardinale recita l’ Ave Maria, come da bambino. Scola ha dimostrato qualità di pastore e di comunicatore non scontate in un intellettuale. Ha saputo ascoltare mondi lontani dal suo, dall’ arte contemporanea al cinema. All’ ultimo meeting di Rimini ha parlato per due ore a diecimila giovani partendo da quattro film che aveva visto in vacanza: «Matrix» dei Wachowski, «Memento» di Nolan, «Fratello, dove sei?» dei fratelli Coen, «Il concerto» di Mihailenau. Tra i cardinali italiani, è forse quello che dà e concede più facilmente il tu. Nelle discussioni pubbliche, chiede sempre il nome dell’ interlocutore e con il suo nome gli si rivolge, magari per criticarlo, senza preoccuparsi di captarne la benevolenza. Ascoltarlo è un piacere intellettuale che richiede attenzione. E se qualcuno obietta che parla difficile, potrebbe sentirsi rispondere: «Chi dice così, di solito vuol sentire solo cose che già sa». Questo è Angelo Scola. E ciò aiuta a capire perché Milano e i cattolici italiani guardano a lui con grande speranza.
Aldo Cazzullo