Silvia Truzzi, il Fatto Quotidiano 29/6/2011, 29 giugno 2011
“HO RIMASTO A DEBITO”
C’era una volta il vecchio foglio protocollo, quello che si comprava fermando la bici davanti al tabaccaio vicino a scuola, un minuto prima del suono della campanella: “Me ne dia almeno due”: magari capitava di sbagliare qualcosa nella “bella”. Erano i giorni del tema d’italiano: te lo restituivano sottolineato con le note rosse a margine, o rosse e blu se il professore era di quelli che amavano la matita bipartita, il temutissimo lapis. Alla fine c’erano un giudizio e il voto: capivi – quasi sempre – dove avevi sbagliato e perché. Primi passi nella scrittura “adulta”, esperimenti di parola sulla pagina: ritmo, grammatica, tentativi di un discorso per mettere in ordine – e d’accordo – lessico e idee. Di solito “vinceva” chi leggeva di più.
“A SCRIVERE s’impara leggendo ed esercitandosi”, spiega Roberto Nicoletti, prorettore agli studenti dell’Università di Bologna mentre racconta perché l’Ateneo ha deciso di istituire corsi di “educazione alla scrittura” (e non solo a quella) per i suoi laureandi. Che faticano, di strafalcione linguistico in svarione concettuale, a scrivere una tesi. E non perché “nell’inquietudine e nello sforzo di scrivere, ciò che sostiene è la certezza che nella pagina resta qualcosa di non detto”. (Cesare Pavese). Il non detto, qui, è il non saputo dire. “Dai resoconti dei colleghi e dai confronti in senato accademico ci siamo resi conto che, mediamente, lo studente universitario non scrive in maniera corretta”, dice il prorettore. “O, peggio, non sa rappresentare ciò che vuole dire. Naturalmente ci sono le eccezioni, ma è un problema diffuso. Escludendo che uno studente di oggi sia geneticamente diverso da un suo omologo di dieci anni fa, ci siamo chiesti quale differenza sociale e culturale abbia generato questa lacuna. Io sono contrario a teorizzare che, in un sistema complesso come quello dell’educazione, ogni settore scarichi le responsabilità su un altro. Perciò non dirò che è colpa delle scuole superiori. Anche se un po’ è vero: rispetto a un tempo si fanno meno temi perché sono state introdotte altre prove, come quelle ‘con le crocette’ o i riassunti”. L’indice punta, gioco forza, sul modo in cui i ventenni di oggi comunicano: sms, email, social network. “Gli sms, per esempio, costano in relazione alla lunghezza”, spiega Nicoletti, che insegna Psicologia cognitiva a Scienze della comunicazione. Così comunque diventa cmq, perché diventa xchè: non era questo che Calvino intendeva per Rapidità. Oppure si usano, al posto delle parole, emoticon più o meno sorridenti. Si stava meglio ai tempi del telefono a rullo, della penna e del francobollo? “No, se il mondo va in questa direzione”, risponde il pro-rettore. “Però queste tecnologie e il modo in cui hanno modificato la relazione verbale hanno una diretta conseguenza su quello che riusciamo a esprimere quando scriviamo. Tutto il sistema di comunicazione tende a fornire informazioni rapide, a scapito della ricchezza del pensiero. Anche la televisione è portatrice di un linguaggio approssimativo e semplificato. Pensiamo alle trasmissioni il cui format è farti trovare il babbo che non vedevi da vent’anni o far pace con la fidanzata: si assiste solo a pianti e abbracci. I sentimenti non sono linguisticamente rappresentati. Viviamo e ci relazioniamo agli altri in modo molto più segmentato, per approssimazione di errori: alla fine cambiano anche i processi cognitivi”.
IN POCHE PAROLE (è il caso di dirlo), ci stiamo imbarbarendo. Stupefacente? Non molto, se già dieci anni fa un’indagine demoscopica rivelava come un adolescente medio usasse un vocabolario di circa cento parole. Risultato? Quando si arriva al momento della tesi di laurea – qualcuno ha scritto “l’aurea”: è vero – cominciano i problemi. “Il docente non sa se deve correggere la tesi in quanto tesi o applicarsi su grammatica, condizionali usati al posto dei congiuntivi e virgole gettate sul foglio alla rinfusa”, continua Nicoletti. “Allora abbiamo pensato di istituire questi corsi che aiutano lo studente nel momento della stesura della tesi. Perché la tesi ha una struttura, un titolo, un’introduzione che dà un inquadramento generale dell’argomento, un’ipotesi, l’opinione critica di chi la scrive, le conclusioni. E, non ultima, la bibliografia. Gli studenti non sanno come citare le fonti”. Le lezioni partiranno a ottobre, per adesso in via sperimentale, sia per le lauree magistrali che triennali, dedicate agli studenti di facoltà umanistiche e scientifiche: non si pensi che il giurista è più incolto del filosofo... Sono corsi complementari, ma chi li sceglie ha l’obbligo di frequenza e ottiene crediti. Il progetto è stato preparato dal Dipartimento di Italianistica con una trentina di ore “frontali” e un laboratorio con la simulazione degli elaborati. Le ripetizioni di una volta erano cosa più spiccia e meno solenne, ma in fondo la sostanza è la stessa.
IL RIGORE linguistico è un ricordo impolverato, ma non è il solo pensionato da rimpiangere: nell’ospizio degli anni Dieci è finita anche l’educazione. Ecco un esempio di email indirizzata a un professore: “Salve prof, volevo affrontare l’esame che ho ancora rimasto a debito, a giugno e volevo sapere notizie del programma”. Non proprio l’anacoluto manzoniano, tipo “lei sa che noi altre monache, ci piace sentir le storie minuto per minuto” (Promessi sposi, IX). Un’altra eloquente email, diretta a un direttore di dipartimento cinquantenne inizia così: “Caro mio”. Salta fuori che molti universitari danno del tu ai docenti, perfino a lezione: probabilmente lo faranno anche con chi, domani, li sottoporrà a un colloquio di lavoro. Con risultati presumibilmente funesti per il disinvolto candidato. Ma c’è un ulteriore effetto collaterale nei corsi che l’Ateneo – con eccessivo garbo – non vuol chiamare “di recupero”. Lo fa notare Filippo che, sul sito del Resto del Carlino, si domanda: “Chissà se dopo le lezioni di italiano gli scarabocchi sui muri diverranno più comprensibili?”. Finalmente, il graffito grammaticato.