Paolo Bricco, “Il Sole 24 Ore” 29/6/2011, 29 giugno 2011
UN’ECONOMIA DI PRECARI E L’ATTESA INFINITA DEL TUNNEL
Nadia Matteo, titolare della Matteo Costruzioni, è favorevole all’alta velocità. Nonostante questo la Tav, che non c’è ancora, l’ha già centrata in pieno. Agosto 2010, un mattino a colazione: Nadia prende una copia del giornale locale, la sfoglia e vede il grafico della variante del progetto preliminare dell’alta velocità. Cerchiati di rosso, compaiono gli edifici da abbattere. C’è anche il suo capannone, a Chiusa San Michele.
«Avevo comperato il terreno nel 2008 - racconta -. Nessuno mi ha avvertito quando il percorso dell’alta velocità è stato cambiato. Ho scritto a tutti, dalla Regione al Governo, nessuno mi ha risposto. Lo so che è un paradosso. Ma, se non penso alla mia azienda con i libri in tribunale, continuo a ritenere l’alta velocità una grossa opportunità per la Val Susa».
Qui è così. L’alta velocità è, nell’esperienza della stessa persona, il sogno di una benzina in grado di fare ripartire l’economia locale e la realtà di una colla al cemento armato capace di bloccare molti gangli di un tessuto produttivo che, da quindici anni, già di suo si sta disgregando. «La Valle è povera», dice Pier Mario Cornaglia, imprenditore dell’automotive che ha 800 dipendenti e fattura 200 milioni di euro. «I 12mila nuovi posti di lavoro che la Tav potrebbe creare, dai cantieri agli alberghi che ospitano le maestranze, servono uno a uno. Qui la deindustrializzazione ha prodotto effetti molto duri».
Il Cotonificio Valle Susa. Le Acciaierie Assa. L’Industria Metallurgica Piemonte. Le grandi imprese hanno chiuso. Migliaia di operai e di tecnici sono usciti dal mercato del lavoro. Negli ultimi quindici anni, gli insediamenti capital intensive sono stati sostituiti da piccole imprese. «Siamo diventati più poveri», insiste Nadia Matteo, che prima della sua disavventura con la Matteo Costruzioni aveva sette dipendenti e fatturava un milione e mezzo di euro all’anno.
Secondo l’ufficio studi dell’Unione industriale di Torino, qui il Pil procapite è sotto i 15 mila euro. A Torino è 28mila euro, quasi il doppio. Uno scenario molto brutto. Nemmeno le olimpiadi invernali hanno risolto il problema della riconfigurazione della specializzazione economica. La manifattura delle vecchie fabbriche sarà stata anche brutta, sporca e cattiva, ma creava valore aggiunto. Cosa che, oggi, la manifattura delle 5.500 piccole e medie aziende non riesce più a fare, nonostante abbia in carico ancora il 36% degli occupati. Il turismo e il commercio sono al 31 per cento degli addetti. Una buona quota. Però i giochi invernali hanno lasciato anche tanti conti da pagare: molte aziende edilizie hanno chiuso per questo. Tutto è diventato più difficile. E, così, la Val Susa diventa la valle dei precari.
Consultando i dati del Centro per l’impiego di Susa, si constata infatti che nel 2010, rispetto al 2008, il numero complessivo dei nuovi contratti è sceso del 21 per cento. Quelli a tempo indeterminato sono calati del 38 per cento. I contratti a tempo determinato sono invece aumentati del 23 per cento.
È invece più complesso interpretare i dati finanziari. Stando al bollettino statistico della Banca d’Italia, in tre significativi comuni della valle (Avigliana, Bussoleno e Susa), fra il dicembre 2007 e il dicembre 2010la variazione cumulata dei depositi è stata positiva per il 43,2%, contro il +28,9% della provincia di Torino. Un dato, però, è interessante. In questi tre anni gli impieghi, che forniscono una indicazione dei prestiti bancari alle aziende, qui sono aumentati soltanto del 7,8%, contro il 13,5% di quelli nell’intera provincia di Torino. Dunque, il flusso finanziario dagli istituti di credito verso il tessuto produttivo ha avuto minore consistenza di quanto successo nel resto della provincia. «È strano - riflette Michele Cribari - è come se da dieci anni vivessimo dentro a una bolla. Quasi che l’economia di questa valle non esistesse più. I piani regolatori bloccati. Le aziende congelate dalla crisi e in attesa dell’alta velocità». Cribari ha un’azienda di trasporti speciali. Prima della recessione fatturava 8 milioni di euro e dava lavoro a quarantacinque persone. Ora sono in undici e producono ricavi per 2 milioni.
Il cantiere, su a Chiomonte, è aperto. Si vedrà quanto, di questo gigantesco affare, resterà in Val Susa. Le speranze si sovrappongono alle prudenze. Perché qui, in molti, si sono scottati le dita. Dicono che l’alta velocità possa valere un punto di Pil piemontese. Assicurano che costituirà una arteria per il trasporto dei prodotti italiani verso il mercato francese e verso i Paesi dell’Est. «Mi auguro sia tutto vero - dice Roberto Martina, piccolo imprenditore meccanico - intanto, però, io vado con i piedi di piombo. Sa com’è. I lavori partono, non partono. Per il troppo entusiasmo, ho perso l’azienda di famiglia, fondata cinquant’anni fa da mio padre Esther».
Nel 2005 Martina inizia a investire. L’idea è di collaborare alla logistica dei colossi impegnati sulla linea ferroviaria. Edifica un capannone da 36mila metri quadrati. La Cmc, la cooperativa rossa delle costruzioni, lo affitta. Soltanto che, fra uno scontro politico e una ribellione dal basso, la grande opera diventa l’opera lenta e l’opera in forse. «Abbiamo avuto una crisi finanziaria - racconta - e al dunque le banche non ci hanno aiutato. Quella scommessa ci ha bruciato». La sua azienda aveva 160 dipendenti. Ha chiuso e riaperto. Ora Martina riparte da 20 addetti.