Fabrizio Galimberti, Il Sole 24 Ore 29/6/2011, 29 giugno 2011
SPENDIAMO TROPPO SPENDIAMO MALE
Uno dei primi atti del ministro dell’Economia Giulio Tremonti al momento dell’insediamento, a fine 2001, fu quello di sciogliere la commissione tecnica sulla spesa pubblica. E nel 2008, di nuovo al momento dell’insediamento, uno dei primi atti fu quello di sciogliere un’analoga commissione voluta dal suo predecessore Tommaso Padoa-Schioppa. La ratio di quelle commissioni era semplice: per deliberare bisogna conoscere, e per deliberare i tagli di spesa bisogna indagarne i meccanismi minuti, smontare le viti e i bulloni che inchiavardano i voraci meccanismi delle elargizioni, individuare gli sprechi con nomi e cognomi, fare, insomma, il contrario di quei "tagli lineari" che fanno la fine delle grida manzoniane e inaugurare invece la stagione dei "tagli non lineari".
Non c’è da stupirsi, quindi, se il recente "ravvedimento operoso" del ministro dell’Economia lo ha meritoriamente portato a resuscitare, sotto la forma di un Gruppo di lavoro, i lavori di analisi della spesa, sotto la guida del miglior esperto di viti e bulloni della spesa pubblica che ci sia in Italia, il professor Piero Giarda. Il rapporto che Giarda ha consegnato al ministro deve ancora essere arricchito dei contributi delle parti sociali presenti nel Gruppo di lavoro, ma già adesso si può dire che l’analisi, sapiente e dettagliata, anche se non contiene proposte specifiche (non era questo il suo compito) individua le linee di azione per contenere quella spesa pubblica che oscilla ormai al di sopra della metà del Pil.
A valle di questa analisi vi saranno - si spera - i provvedimenti dettagliati di riduzione degli sprechi e di contenimento degli esborsi. Ma qui ci si vorrebbe soffermare su un punto cruciale che sta a monte di queste analisi. Cioè a dire, qual è il punto di partenza? La spesa pubblica in Italia è eccessiva e quindi sarà facile da tagliare? O è già sottopeso e quindi i tagli saranno molto difficili? O addirittura dovrebbe essere invece aumentata? Perché, malgrado da decenni tutti invochino a parole i tagli di spesa (solo per le spese improduttive, naturalmente), la spesa ha continuato a salire? È solo per l’insipienza dei governanti (di destra o di sinistra)? O vi sono altre ragioni? Alcuni trovano conforto nel fatto che la spesa primaria (al netto degli interessi) per la prima volta nel dopoguerra, è diminuita in valore assoluto nel 2010. Ma in verità il conforto non è molto confortante: nel 2009 - l’anno della grande caduta del Pil - la spesa era balzata al 47,8% del Pil - un record di tutti i tempi - dal 44,2% del 2008. Nel 2010 quel balzo eccezionale si è ridimensionato, ma la spesa non è ridiscesa al 2008: si è mantenuta al 46,7% del Pil, la seconda quota più alta da sempre.
Una prima interpretazione riposa su un confronto internazionale. Per avere un’idea dell’anomalia o meno della nostra quota di spesa possiamo confrontarci con i Paesi vicini. Il grafico mostra le quote di spesa nei Paesi dell’euro e nei principali Paesi non-euro dell’Unione europea. E mostra come la quota di spesa in Italia sia la più bassa di tutti.
Come si concilia questo fatto con la realtà di un peso della spesa che, come detto, supera la metà del Pil? Si spiega perché la spesa sulla quale si sono fatti i confronti riguarda la parte di spesa sulla quale si può intervenire per tagliare gli sprechi e in altri modi contenere. Si è cioè esclusa quella parte di spesa che "viene dal passato" e sulla quale non si può operare. Sono due i grandi comparti intoccabili: la spesa per interessi, che dipende dal debito accumulato nel passato; e la spesa per le pensioni, che dipende dalla passata generosità del sistema pensionistico. Su quest’ultima si può operare "al margine", contenendo gli esborsi futuri per i pensionandi e/o alzando l’età pensionabile, ma in ogni caso i risparmi sono lenti a manifestarsi, dato che il monte pensioni in essere è pesante e non può essere modificato.
Ecco quindi una prima risposta alla difficoltà di ridurre la spesa. Le risorse destinate ai servizi pubblici sono già basse, e gli anticorpi presenti nella società resistono a ulteriori tagli come a un virus che minaccia la salute dell’organismo economico. Altri dati confortano questa tesi: il numero di dipendenti pubblici in Italia è più basso, in rapporto alla popolazione (i clienti dei servizi) rispetto a quel tempio del "capitalismo selvaggio" che sono gli Stati Uniti.
Ma allora gli sprechi? Ci sono o non ci sono? Certamente ci sono, e sarebbe strano se nelle pieghe delle centinaia di miliardi di euro che compongono la spesa non vi siano disfunzioni (sulle quali il rapporto Giarda richiama l’attenzione con efficacia). Allora, è legittimo aspettarsi una sana potatura dei rami secchi della spesa che liberi risorse per la riforma fiscale e/o per la riduzione del deficit?
La risposta è positiva se lo scopo dell’operazione è quello di mantenere la rotta verso il risanamento dei conti pubblici. Sempre, naturalmente, che questo governo abbia il vigore e la compattezza necessari per mettere a frutto le analisi del Gruppo di lavoro. La risposta è invece negativa se lo scopo dell’operazione è anche quello di restituire all’economia italiana la capacità e la voglia di crescere. È utile a questo proposito sottolineare che la spesa pubblica si divide, come la Gallia di Giulio Cesare, in tre parti:
e Quella che c’è ed è bene che ci sia (la spesa che funziona).
i Quella che c’è ed è bene che non ci sia (gli sprechi).
t Quella che non c’è e ci dovrebbe essere (i bisogni pubblici non adeguatamente soddisfatti).
Il problema della bassa crescita italiana, così come del malessere della società, sta essenzialmente nel cattivo funzionamento della pubblica amministrazione e in un mancato raccordo fra la domanda di servizi pubblici e l’offerta degli stessi. Dalle misure passive di protezione del lavoro (sussidi di disoccupazione) a quelle attive (formazione e così via), dalle misure in favore delle famiglie (natalità...) a quelle in favore dell’occupazione femminile (asili nido...), dalla protezione dell’ambiente e del patrimonio artistico alla lotta alla criminalità organizzata, c’è tanta "spesa pubblica che non c’è" - e che ci dovrebbe essere.
Tutto questo per dire che se si riduce la spesa che c’è e non si aumenta quella che non c’è (e ci dovrebbe essere) è solo una mezza vittoria. La lotta agli sprechi dovrebbe servire a migliorare la qualità della spesa, non necessariamente la quantità. Ma, se si rinuncia a portare i tagli di spesa direttamente a riduzione del deficit, questo non vuol dire che il deficit non possa essere ridotto per vie indirette, attraverso la maggior crescita del Pil che sarebbe promossa da un miglioramento del tono e della composizione della spesa pubblica.