JIM KAPUT, La Stampa 29/6/2011, 29 giugno 2011
Nel XXI secolo ci cureremo così - Nei Paesi industrializzati la scienza del XX secolo e i progressi della sanità pubblica hanno portato l’aspettativa di vita dai circa 45 anni nel 1900 ai più di 75 dei primi anni 2000
Nel XXI secolo ci cureremo così - Nei Paesi industrializzati la scienza del XX secolo e i progressi della sanità pubblica hanno portato l’aspettativa di vita dai circa 45 anni nel 1900 ai più di 75 dei primi anni 2000. Anche nel mondo in via di sviluppo la durata della vita è passata da 25 a oltre 60 anni. Le iniziative di sanità pubblica e gli studi scientifici che hanno portato a questo notevole aumento della longevità e miglioramento delle condizioni di salute erano basati sull’approccio epidemiologico e su quello che è considerato un «metodo infallibile» nei settori della medicina e della nutrizione: lo studio prospettico «caso-controllo» e le sue varianti. L’approccio epidemiologico fondamentalmente confronta gli esiti della malattia o la risposta fisiologica di un gruppo di individui esposti a un certo fattore ambientale con quelli di individui che non vi sono esposti, come nella ricerca biomedica a un gruppo di persone viene somministrato un farmaco o un trattamento e a un secondo gruppo no. La differenza tra la risposta media del gruppo esposto (o trattato) e la risposta media di quello non esposto (o del gruppo di controllo) viene chiamata «fattore di rischio» attribuibile a una popolazione. Anche se questi fattori di rischio sono molto utili per prendere iniziative di salute pubblica, fornire indicazioni sui trattamenti medici o dare consigli nutrizionali è, comunque, legato in modo specifico alla popolazione studiata. Una popolazione diversa potrebbe anche non rispondere nello stesso modo. Uno studio produce un risultato, ma un altro studio può non ripeterlo o giungere alla conclusione opposta. Il grande pubblico non si rende conto che dalle diverse popolazioni studiate possono emergere risultati diversi altrettanto scientificamente «validi». Ma, soprattutto, questi fattori di rischio potrebbero non essere applicabili a un singolo individuo, perché gli studi utilizzano le medie di un certo gruppo e la risposta di una persona può essere diversa dalla media del gruppo. La confusione nell’interpretazione dei dati scientifici non influisce solo sulla percezione del pubblico, ma anche su chi si occupa di salute individuale e pubblica: come è possibile sviluppare politiche e direttive sanitarie alla luce di risultati contraddittori? E, inoltre, come si spiega che certi farmaci ufficialmente approvati non funzionano con certe persone e, soprattutto, perché in alcuni casi producono effetti negativi e in altri addirittura la morte? Per oltre un decennio, una delle possibili risposte a queste domande è stata la seguente: se solo conoscessimo la sequenza del DNA di ogni individuo, potremmo spiegare la variabilità della risposta alle diete, ai farmaci, all’ambiente e agli stili di vita. Ma 10 anni di ricerche e centinaia di milioni di dollari hanno dimostrato che anche questa è un’illusione: la comunità scientifica ha prodotto centinaia di nuove varianti geniche legate alle malattie croniche, ma uno qualsiasi dei 30-40 geni sospettati spiega solo in minima parte l’incidenza e la gravità della malattia. La reazione a questa incapacità di spiegare tutti gli aspetti di una malattia sulla base dei geni individuati è stata quella di adottare la strategia dei genetisti: studiare migliaia di RNA, centinaia di metaboliti come il colesterolo, il glucosio, gli amminoacidi dei fluidi biologici o decine di proteine. Il metodo di misurare una gran quantità di un certo tipo di molecole è chiamato «approccio omico». Conosciamo anche i risultati di questi tentativi fatti in laboratorio: lo studio dei metaboliti (metabolomica), delle proteine (proteomica) o dell’RNA (trascrittomica) aiuta a comprendere i processi biologici, ma ancora non permette di sapere chi rimarrà sano e chi svilupperà una malattia. Un importante difetto di molti studi di genetica e omica è la mancata attenzione alla dieta e all’ambiente, due fattori che interagiscono con i geni per produrre le ampie variazioni nell’ambito del metabolismo e della salute osservate nella popolazione. Molti laboratori stanno ora cercando di unire tutti questi tipi di dati per scoprire come le diverse molecole interagiscono tra loro. Questa nuova biologia dei sistemi si allontana dal metodo riduzionista che si limita ad analizzare una singola molecola (come il colesterolo) e il suo ruolo in un processo biologico (per esempio, i disturbi cardiaci). I primi risultati ottenuti dalla biologia dei sistemi sono stati incoraggianti ma sono ancora insufficienti per spiegare la fisiologia umana e, in particolare, la diversità delle risposte individuali. Perché? La difficoltà di individuare fattori di rischio personalizzati non è dovuta alle carenze delle tecniche e degli strumenti di laboratorio del XXI secolo, alla scelta delle molecole da analizzare o al numero di individui studiati. I due maggiori difetti del metodo sperimentale del XX secolo erano quelli di concentrarsi su un aspetto della biologia (quello genetico o quello ambientale, ma non entrambi) e di confrontare gruppi di individui per poi calcolare la risposta media. I dati sulla sequenza del DNA raccolti e pubblicati hanno dimostrato che, mentre ogni individuo ha in comune con tutti gli altri il 99% dei suoi tre miliardi di coppie di basi di DNA, il sottoinsieme delle differenze restanti produce la vasta gamma di differenze non solo di aspetto, ma anche di metabolismo che lo distinguono. Questa variazione genetica amplifica le differenze tra i fattori alimentari, culturali e ambientali che influenzano l’espressione del nostro patrimonio genetico e tuttavia i fattori dietetici e ambientali vengono raramente misurati e inclusi negli studi genetici sui processi biologici umani. Il nuovo approccio del XXI secolo al difficile compito di analizzare e comprendere gli esseri umani si fonda sulla premessa fondamentale che gli studi «caso-controllo» non possono essere effettuati sulla base delle condizioni di salute finali. Per esempio, gli individui affetti dal diabete di tipo 2 hanno sviluppato quella malattia perché il funzionamento del pancreas, del fegato, dell’ intestino, del tessuto adiposo o di quello muscolare è mal regolato a causa di una dieta o di uno stile di vita sbagliati. Una persona con il diabete di tipo 2 potrebbe avere un difetto di regolazione dell’insulina nel pancreas, mentre un’altra potrebbe avere un fegato che produce troppo glucosio, ma il funzionamento del suo pancreas potrebbe essere nella norma. Un’altra può avere entrambe le cose o carenze di organi e tessuti diversi che hanno determinato la malattia. Il gruppo mette insieme tutte queste persone, ma anche tutti gli organi, quelli che funzionano bene e quelli che funzionano male. E anche nel gruppo di controllo c’è una grande variabilità: esistono molti modi per essere sani. Il nuovo metodo sperimentale differisce dal modello «caso-controllo» del XX secolo nel senso che gli individui sono analizzati «nel loro insieme» con tecnologie omiche, che tengono conto anche della dieta e dello stile di vita. Solo dopo aver completato questa analisi le persone vengono raggruppate in base alle risposte metaboliche. Questa metodologia è ancora agli inizi e una sfida importante sarà quella di scoprire gli algoritmi statistici che meglio descrivono i numerosi e diversi tipi e insiemi di dati. Tuttavia, la strada della nutrizione personalizzata, della medicina e della sanità non può contare sui modelli del XX secolo. Deve fare affidamento su strategie innovative per spiegare tutte le diversità e le culture umane.