Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 30/06/2011, 30 giugno 2011
LA VERITA’ CAPOVOLTA DA UNA PERIZIA IN RITARDO
«La verità non sembra mai vera» , diceva il vecchio Simenon, che, dopo aver frequentato per tanti anni il commissario Maigret, di questioni giudiziarie se ne intendeva parecchio. La verità del delitto di Perugia, invece, per quell’effetto ottico che spesso colpisce l’opinione pubblica ma che non dovrebbe mai riguardare i giudici, sembrava vera ai più, specie dopo il verdetto di primo grado: i colpevoli erano loro, punto e basta. Ieri il colpo di scena. Affidato, udite udite, non a una prova emersa dalle ombre più riposte dell’inchiesta o da un nuovo testimone saltato fuori dal nulla, ma da una banalità alla quale non si era pensato prima. Una banalità dettata da ordinario buon senso: come quello che suggerisce di vestirsi prima di uscire di casa o di ingranare la prima per muoversi in auto. Una banalità a cui si poteva arrivare tre anni e mezzo fa, quando tutto ebbe inizio: una semplice perizia sulla (presunta) arma del delitto, una perizia che è diventata, nel processo d’appello, una verifica «al di là di ogni ragionevole dubbio» , formula che con la sua risonanza quasi letteraria appare ai profani come una sorta di «extrema ratio» dettata dalla disperazione, e che invece avrebbe dovuto essere una normale «primissima ratio» . Così, l’aritmetica della dimostrazione è crollata miseramente e costringerà gli inquirenti a ripartire da zero. Perché in realtà, non c’era nessuna aritmetica e la dimostrazione, partendo da presupposti errati, non era un sillogismo ma solo quello che la retorica di Aristotele chiama un entimema, cioè un’argomentazione che ha il solo, grave, difetto di fondarsi su premesse non certe: la premessa sbagliata era che le tracce di quel coltello appartenevano alla vittima.
E adesso siamo di fronte a una verità capovolta, o meglio azzerata. Come è successo già in passato tante volte: ultimo caso memorabile quello di Garlasco e del giovane Alberto Stasi, imputato per l’omicidio della sua fidanzata Chiara e infine assolto per una questione di orari non coincidenti. Anche questo un «particolare» emerso tardi, ma che avrebbe meritato una verifica immediata risparmiando a tutti un iter lunghissimo e penoso. Nella storia giudiziaria è citatissimo il caso del morto-vivo di Avola, Paolo Gallo, scomparso una mattina dell’autunno 1954 e dato per defunto, assassinato dal fratello Salvatore. La giustizia non volle sentire ragioni: ignorando le testimonianze contrarie, condannò Salvatore all’ergastolo e con lui a quattordici anni di detenzione il figlio Sebastiano per occultamento di cadavere. Peccato che sette anni dopo si scoprì che il morto era vivo e abitava pacificamente a pochi chilometri da casa, in un paesino del Ragusano. Caso, certo, ben diverso da quello perugino, ma con un «particolare» in comune: anche lì il lapsus, il vuoto che ottunde e il contagio di un’opinione pubblica che aveva già emesso la sentenza. Anche lì le verifiche che andavano fatte preliminarmente (qualche attento sopralluogo) vennero meno, chissà perché, chissà come. Anche lì la verità sembrava più vera del vero, con buona pace del vecchio Simenon.
«Elementare, Watson!» è la celebre frase (a torto) attribuita a Sherlock Holmes quando illustra all’amico la complessa soluzione del caso. Ma qui più che un detective dallo «sguardo acuto e penetrante» e dal profilo puntuto tipico dell’uomo d’azione come quello del protagonista di Conan Doyle; più che la tenacia fastidiosa e apparentemente distratta di un tenente Colombo, sarebbe bastato un minimo di buon senso da casalinga di Voghera o dintorni. Perché in realtà quella sull’omicidio della povera Meredith non è proprio una verità capovolta dalla sottigliezza di cervelli superiori che soltanto un genio letterario può concepire, ma dalla banalità di una constatazione terre-à-terre. In un contesto in cui la Perizia Scientifica viene invocata come l’ultima conquista della tecnologia giudiziaria, punto di partenza inequivocabile da cui l’intelligenza dell’inquirente deve prendere le mosse, proprio una perizia (minuscolo) affidata a terzi è stata sempre negata ai difensori che la chiedevano dalla prima ora. Finché un giudice che dispone del buon senso della casalinga di Voghera ha detto: ma sì, facciamola, questa perizia, giusto «per andare al di là di ogni ragionevole dubbio» . E in effetti il dubbio del giudice-casalinga si è rivelato più che ragionevole.
Ora, finalmente, dobbiamo ammettere che Simenon aveva ragione: la verità che una volta tanto sembrava più vera del vero ai più, si è trasformata in una verità (per quanto parziale) che non sembra vera: vuoi vedere che i colpevoli non sono né la misteriosa Amanda Knox né l’indecifrabile Raffaele Sollecito? Sollecito sembra un cognome beffa. Come si sa, non è un aggettivo che si attaglia alla giustizia italiana. E prima che la verità capovolta, o meglio azzerata, diventi una verità autentica (per quanto possa non sembrare vera) bisognerà aspettare altro tempo.
Paolo Di Stefano