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 2011  giugno 27 Lunedì calendario

Il peccato ideologico di Terzani in Cambogia - Negli anni Sessan­ta del ’ 900 la Cam­bogia di Noro­dom Sihanouk era una sorta di Paese dei campa­nelli del Sud-est asiatico, fragile eppure resistente, corrotto ma vitale, povero senza essere mise­rabile

Il peccato ideologico di Terzani in Cambogia - Negli anni Sessan­ta del ’ 900 la Cam­bogia di Noro­dom Sihanouk era una sorta di Paese dei campa­nelli del Sud-est asiatico, fragile eppure resistente, corrotto ma vitale, povero senza essere mise­rabile. Un tempo protettorato della Francia e poi, per suo tra­mite, regno indipendente, si ri­trovava ora nella scomoda posi­zione di non scontentare gli americani che ne avevano pre­so il posto, di non poter sconten­tare i vietc­ong che con gli ameri­cani erano entrati in guerra... La tattica di Sihanouk, il principe monarca che la guidava, consi­steva nel permettere ai primi di bombardare i secondi, nel con­cedere a quest’ultimi una sorta di diritto di transito nella parte più remota del Paese, il «sentie­ro di Ho Chi Minh ». Era una tatti­ca pericolosa ma aveva una sua logica: garantiva una neutralità, preservava un’identità naziona­le e p­ermetteva un’attività diplo­matica... Nella logica degli Stati Uniti era una tattica incompren­sibile. Per loro funzionava «la te­oria del domino », dove se toglie­vi un pezzo cadevano tutti gli al­tri. Così, nel 1970, un colpo di Stato ispirato da Washington de­pose Sihanouk e schierò militar­mente la Cambogia al fianco de­gli americani. Tiziano Terzani arrivò in Cam­bogia un paio d’anni dopo. Ave­va superato la trentina, era dive­nuto da poco professionista al Giorno , aveva un contratto di collaborazione con Der Spiegel , giornalisticamente era una sor­ta di signor Nessuno. Laureato in Giurisprudenza, poliglotta, un’esperienza lavorativa alla Olivetti, la carta stampata era una passione accarezzata fin da ragazzo, ma frustrata poi da al­tre scelte professionali. L’anda­re in Asia fu una sorta di rischio calcolato: lo toglieva da una con­correnza in patria che per età lo vedeva svantaggiato, gli conse­gnava un terreno di manovra inesauribile, la piccola ciambel­la di salvataggio tedesca lo met­teva al riparo dal provinciali­smo giornalistico italiano. Natu­ralmente c’era anche dell’altro, di natura più intima, una sorta di spirito d’avventura, un fasti­dio per il razionalismo occiden­tale e un interesse per tutto ciò che di magico emanava da un continente in cui antico e mo­derno coesistevano. Non so più chi, credo Bernar­do Valli, ha scritto che c’erano in Terzani molti elementi conra­diani, e la definizione è partico­larmente felice, al di là delle con­notazioni più esterne e più facili a essa legata, l’esotismo, i viaggi, l’abbigliamento, l’eccentrici­tà... Come nel Lord Jim di Con­rad, a un certo punto Terzani in­ciampò in sé stesso, fece uno sbaglio, fu colpevole per omis­sione e da allora in poi la sua vita fu come una corsa in cerca di espiazione, il tentativo di riag­giustare quello che a un certo punto era andato rotto e, pur­troppo per lui, non era più ripa­rabile. La «colpa» è racchiusa nelle pagine di «Olocausto in Cambogia» poste a chiusura del primo volume dei Meridiani a lui dedicato (Tiziano Terzani, Tutte le opere , vol. 1: 1966-92, pagg. 1554, euro 60) e che si av­vale di una smagliante introdu­zione di Franco Cardini che ne inquadra da par suo il comples­so percorso storico-ideologico-rel­igioso a cui doverosamente ri­mandiamo. Qui è appunto alla Cambogia da cui siamo partiti che vale la pena tornare per cer­care di capire. Come molti della sua genera­zione, Terzani vide nella guerra del Vietnam la «sua» guerra, la «guerra giusta» per la quale vale­va la pena prendere posizione e non soltanto limitarsi a raccon­tarla. Per molti versi aveva ragio­ne. I vietnamiti erano usciti dal colonialismo, avevano combat­tuto per la loro indipendenza, si erano ritrovati con due sovrani­tà in contrasto, ma non ci voleva molto a capire che quella del Sud era un compromesso, il frut­to ambiguo degli accordi di pa­ce, non in grado di reggersi auto­nomamente rispetto all’altra, vittoriosa e nazionale. L’inter­vento americano aveva a che fa­re con la geo-politica, più che con la libertà, era un intervento in casa altrui. Il torto stava nel ca­ricare quel conflitto di motiva­zioni ideologiche «giuste», di fa­re del comunismo vietnamita un ideale di fratellanza e di bon­tà, la strada verso una società più giusta nella sua ricerca dell’« uomo nuovo». Nella Cambogia trascinata suo malgrado nello scontro, Ter­zani applicò lo stesso metro di giudizio: i khmer rossi che com­battevano contro il regime filo­americano di Lon Nol non era­no tanto guerriglieri marxisti e nazionalisti, gente che voleva es­sere padrona in casa propria: erano l’emblema dell’uomo nuovo, del rivoluzionario seve­ro ma giusto, del militante della pace costretto a imbracciare le armi... Nel 1975 i Khmer rossi entra­rono finalmente a Phnom Penh, la capitale cambogiana e nessun giornalista straniero poté da quel momento in poi en­­trare e riuscire vivo dal Paese. Cominciarono a spargersi voci di massacri e di terrore. A un an­no di distanza, sull’ Espresso ,Ter­zani provò a fare un primo bilan­cio. Era un giornalista bravo, da tempo sul campo, scrupoloso nelle fonti, ma purtroppo per lui era simpateticamente vicino a chi sempre più veniva additato come l’epitome del Male, e non voleva, non poteva crederci. «“Un vero genocidio” dicono i ri­fugiati. Le prove? Decisive, in­confutabili, nessuna. Anzi, ogni documento che dovrebbe aval­lare le storie dei massacri è così poco credibile da far pensare che il tutto sia un’abile montatu­ra». Il tono dell’articolo era que­sto, un dire per subito smentire. «I massacri sono dunque una “montatura propagandistica” dei nemici della Cambogia, co­me affermano le autorità rivolu­zionarie di Phnom Penh? O qualcosa di terribile è davvero successo nel paese che poi è sta­to esagerato­e distorto dalla pro­paganda anticomunista? La se­conda ipotesi è più verosimile, anche se non può essere prova­ta». E ancora: «L’evacuazione della capitale fu una misura radi­cale, draconiana. Fu applicata con durezza, in alcuni casi forse anche con crudeltà; ma fu, vista in prospettiva, una misura ne­cessaria. Il lavoro più o meno for­zato dell’intera popolazione nei campi o alla ricostruzione di un intero sistema di irrigazione fu una decisione ugualmente du­ra, ma obbligata. I risultati si ve­dono già». L’articolo, a suo mo­do, era perfetto: «qualcosa di ter­ribile» che però poi «è stato esa­gerato», un’ipotesi «verosimi­le », ma che non può essere «pro­vata », la «durezza», certo, e «for­se » anche «la crudeltà», ma «ne­cessaria », comunque, e infatti «i risultati si vedono». «È possibile che in questo clima di soluzione radicale con quadri giovani e spesso politicamente immaturi siano avvenuti alcuni degli ec­cessi che i rifugiati raccontano» diceva ancora Terzani in conclu­sione della sua corrisponden­za... Non si tratta qui di impiccare qualcuno alle sue parole, né del resto siamo di fronte a un artico­lo di pura e semplice disinforma­zione. È qualcosa di più sottile, che ha a che fare con la superbia intel­lettuale da un lato, con l’autocensura mentale dall’altro, quello che consape­volmente non viene scritto perché ci si auto-convince che non sia del tutto ve­ro, che si tratti di un incidente di percor­so. Dieci anni dopo, nel 1986, Terzani riassumerà il tutto così: «Chi erano dav­vero i khmer rossi? “Assassini sangui­nari, accecati dal­l’­ideologia marxista-leninista” dicevano i diplomati­ci americani e gli agenti della Cia che pullulavano in mezzo a noi. Ma noi non ci facevamo in­­fluenzare. Anzi, proprio perché quei giudizi venivano da loro, tendevamo a pensare esatta­mente il contrario». Lentamente Terzani si con­vinse che Pol Pot non era una semplice aberrazione, che l’ideologia rivoluzionaria da cui era mosso, l’egualitarismo marxista-leninista riletto in chia­ve maoista, portava razional­mente a quel genocidio autocto­no, che, insomma, l’«uomo nuo­vo» per essere realmente tale do­veva eliminare il vecchio, e non solo a parole... Si convinse, in­somma, che «L’orrore siamo noi», anche e soprattutto quan­do pensiamo che siano solo gli altri. In Cambogia Terzani per­se la propria innocenza e nei vent’anni successivi visse quel­la perdita come una colpa da cui emendarsi e come un moni­to cui attenersi: mai più ideolo­gie.