Varie, 28 giugno 2011
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Carter Elliott
• New York (Stati Uniti) 11 dicembre 1908. Compositore • «[...] ha percorso il Novecento distinguendosi nettamente, per originalità e complessità di concezione tecnica, dagli altri compositori americani. La sua produzione [...] alimentata da una fantasia inesauribile, è passata attraverso varie fasi: dal flirt con il jazz e la musica di consumo, che ha segnato il periodo giovanile, all’influenza di Ives, Varèse, Debussy e Stravinski. Ne è risultata una sintesi unica tra la tradizione americana e quella europea, attraverso la combinazione di due fattori: da un lato la complessità degli strati compositivi, che conferisce a questa musica il gusto epico dello spessore e della congestione; dall’altra la coerenza deduttiva, tipica della tradizione europea. Specialità di Carter sono soprattutto le sovrapposizioni metriche e ritmiche: la sua musica è costruita per strati indipendenti che le conferiscono una densità non facile da districarsi ad un primo ascolto, e bisognosa di una estrema chiarezza esecutiva. [...]» (“La Stampa” 16/1/2008) • «“A sedici anni ho ascoltato la Sagra della primavera di Stravinskij e ho deciso di diventare musicista. Ho continuato a farlo, lo sto ancora facendo” [...] Non esistono, e non soltanto tra i musicisti, precedenti altrettanto longevi, e lucidi [...] la sua formazione è avvenuta a Parigi, negli anni Trenta. Poi, la parentesi europea si è chiusa [...] “Il periodo di Parigi è stato decisivo. Nadia Boulanger, quella straordinaria didatta, mi ha fatto amare il grande passato europeo, da Bach a Beethoven, e la musica che stava nascendo allora, da Bartók a Schoenberg. E tuttavia americano lo sono sempre stato, anche se naturalmente nel mio stile ci sono state delle evoluzioni e la più importante è maturata attraverso una delusione [...] Mio padre era un pacifista convinto di poter realizzare la vera fratellanza fra gli uomini. Così, all’inizio, erano gli anni che seguivano la Grande Depressione, ho pensato di scrivere una musica che tutto il mio popolo, anche le persone più semplici, potesse amare, nella quale speravo tutti potessero riconoscersi. Poi mi sono accorto che la classe media e i lavoratori del mio paese preferivano il jazz o la musica di consumo. Allora ho abbandonato quell’utopia e sono rientrato in me stesso, per ritrovarmi [...] Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, ho scritto Holiday ouverture ispirata alla liberazione di Parigi. Si sente ancora l’influenza jazz e popolare, ma già con la Sonata per violoncello e pianoforte, del 1948, era nato qualcosa che sentivo come mio [...]”» (“La Stampa” 12/1/2008).