PAOLO MASTROLILLI, La Stampa 27/6/2011, 27 giugno 2011
L’ex ostaggio Anderson “Soltanto la fede ti aiuta” - Mi immedesimo nel soldato Shalit, penso a quanto soffre, e spero che presto sia libero
L’ex ostaggio Anderson “Soltanto la fede ti aiuta” - Mi immedesimo nel soldato Shalit, penso a quanto soffre, e spero che presto sia libero. Però devo anche dire che stiamo sbagliando quasi tutto, nella lotta al terrorismo». Terry Anderson fatica a parlare di queste cose. I quasi sette anni passati dentro una prigione di Hezbollah a Beirut lo hanno segnato nel profondo e non ama ricordare quell’incubo. Ora l’ex corrispondente dell’Ap vive in Ohio e insegna giornalismo, e l’estate scorsa ha trovato il coraggio di portare i suoi studenti nella città in cui era stato rapito. Dove la tenevano? «Chiuso dentro un appartamento senza luce, spesso incatenato. Avevamo solo 15 minuti di pace al giorno per lavarci. Ma la cosa che mi terrorizzava di più era non avere la minima idea del mio destino: sapevo di poter essere ammazzato in qualunque momento». Come passava il tempo? «All’inizio leggendo. Mi avevano dato una Bibbia, che scorrevo tutti i giorni. Il mio più grande rimpianto, quando sono stato liberato, è che non mi hanno permesso di portarla con me». La fede l’ha aiutata a sopravvivere? «Io ero cresciuto cattolico, ma poi mi ero allontanato dalla Chiesa per le decisioni della gerarchia che non condividevo. In prigionia, però, mi sono trovato a fianco due persone straordinarie: il sacerdote cattolico Martin Lawrence Jenco e il ministro presbiteriano Benjamin Wier. Grazie a loro ho riscoperto la mia fede cristiana». E’ vero che celebravate la messa ogni giorno? «Sì, in quella che avevamo soprannominato la Chiesa della Porta Incatenata. La preghiera ci dava forza morale, psicologica e anche fisica. Sapere di avere il sostegno di due persone come Jenco e Wier era un aiuto straordinario». I carcerieri, invece, vi sfottevano. «I più giovani e superficiali. Ci litigai, perché non rispettavano i nostri riti. Però alla fine capirono, e cominciarono persino a fare domande sulla nostra religione a padre Jenco». Lei, però, un giorno perse il controllo. E prese il muro a testate. «Un mio compagno di prigionia tentò di suicidarsi, chiudendosi la testa in un sacchetto di plastica. E’ difficile non cedere allo sconforto, quando la tua pena sembra un incubo da cui non ti puoi svegliare mai». Ha perso anche suo padre e suo fratello, mentre era prigioniero. «Per qualche giorno ci impedirono di ricevere notizie, leggere giornali, avere qualunque contatto con quanto accadeva all’esterno. Poi ho scoperto perché: non volevano che venissi a sapere della morte di mio padre». Non ha potuto vedere nemmeno la nascita di sua figlia Sulome. «Quando mi rapirono mia moglie era incinta. Non seppi più nulla, fino a quando i carcerieri mi dissero che la bambina era nata e mi fecero avere una sua foto. Mi misi a piangere, per la tristezza di non essere con lei, e per la gioia che tutto fosse andato bene». Ha mai incontrato Giandomenico Picco, l’inviato dell’Onu che ha negoziato il suo rilascio? «E’ un amico e un eroe: si fece catturare per parlare con i nostri carcerieri». E’ vero che ha perdonato i suoi rapitori? «Sì». Perché? «E’ complicato spiegarlo. Diciamo che non volevo avvelenarmi il resto dell’esistenza, e vivere di rabbia». Perché stiamo sbagliando quasi tutto nella lotta al terrorismo? «Quello che i terroristi ci hanno spinto a fare contro noi stessi fa più male della loro violenza. Va bene uccidere Osama bin Laden o Imad Mughniyah, perché sono leader e quindi bersagli legittimi. Ma tutto il resto, come torturare i prigionieri, lanciare bombe sui civili o spiare i cittadini americani, scardina i valori della Costituzione che ci ha tenuti insieme per oltre due secoli. Anche Obama sbaglia, perché sta continuando le politiche di Bush. Al Qaeda ormai è composta da 100 o 200 sbandati, che possiamo neutralizzare con misure diverse». Shalit ha qualche speranza di uscirne vivo? «Non lo so. Però il conflitto tra israeliani e palestinesi avvelena tutto il Medio Oriente. La pace possono deciderla solo gli israeliani, perché solo loro hanno il potere di farla».