ALESSANDRO URSIC, La Stampa 27/6/2011, 27 giugno 2011
Khmer rossi alla sbarra “Ma è un processo farsa” - Nello scenario ideale, pur con trent’anni di ritardo, questo sarebbe il momento in cui finalmente si fa giustizia: l’anziano stato maggiore dei Khmer rossi va alla sbarra per rispondere della morte di 1,7 milioni di cambogiani durante la folle utopia collettivista che lacerò il Paese tra il 1975 e il 1979, e l’accusa già scomoda il paragone con i nazisti a Norimberga
Khmer rossi alla sbarra “Ma è un processo farsa” - Nello scenario ideale, pur con trent’anni di ritardo, questo sarebbe il momento in cui finalmente si fa giustizia: l’anziano stato maggiore dei Khmer rossi va alla sbarra per rispondere della morte di 1,7 milioni di cambogiani durante la folle utopia collettivista che lacerò il Paese tra il 1975 e il 1979, e l’accusa già scomoda il paragone con i nazisti a Norimberga. Ma il processo che da domani andrà in scena a Phnom Penh arriva in un clima di delusione e risentimento, tra accuse di pressioni politiche e timori che il procedimento non raggiunga mai la conclusione, riaprendo vecchie ferite solo per renderle ancora più dolorose. Con il «fratello numero uno» Pol Pot morto nel 1998, il processo coinvolge i quattro più importanti ex leader del regime tra quelli ancora in vita. Si tratta di Nuon Chea, ideologo del movimento e «fratello numero due»; il presidente della Cambogia democratica Khieu Samphan; il ministro degli esteri Ieng Sary e la moglie Ieng Thirith, ministro degli Affari sociali e cognata di Pol Pot. Sono in carcere da quattro anni, e i procuratori del tribunale misto dell’Onu a Phnom Penh hanno raccolto 350 mila documenti per suffragare le accuse di crimini di guerra e contro l’umanità, nonché quelle di genocidio contro la minoranza vietnamita e quella dei Cham musulmani. Si andrà per le lunghe: le udienze di questa settimana solo solo procedurali, il processo non entrerà nel vivo prima di agosto. I quattro imputati negano tutto: nessuna collaborazione con i giudici, nessun pentimento. Ieng Thirith è più volte sbottata maledicendo i suoi accusatori. Il glaciale Nuon Chea, recentemente ritratto nel documentario Enemies of the people del giornalista cambogiano Teth Sambath, ci ha messo due anni per cedere alla voglia di verità del reporter che l’aveva avvicinato nella sua casa di campagna prima dell’arresto nel 2007. Alla fine, senza ombra di rimorso, ha ammesso che le vittime del regime erano, appunto, «traditori» e «nemici del popolo». Ha mostrato un minimo di umanità solo quando l’altro gli ha finalmente rivelato che i suoi genitori erano tra di esse. Quello contro i quattro ex leader è il «procedimento numero 2» avviato dal tribunale misto dell’Onu a Phnom Penh con competenza per i Khmer rossi, dopo la condanna a 30 anni di reclusione contro il «compagno Duch» - il responsabile del carcere di Tuol Sleng - nel primo processo contro un ex membro del regime. Mentre Duch attende il verdetto di appello, la corte arriva alla sua Norimberga nel momento peggiore: con 100 milioni di dollari spesi in cinque anni di indagini, piagata da sospetti di corruzione e di essere sensibile alle pressioni dall’alto. Da tempo si mormora che il primo ministro Hun Sen - un ex Khmer rosso che controlla la Cambogia dalla metà degli anni Ottanta - cerchi di ostacolare il lavoro del tribunale per non far emergere gli scheletri nell’armadio di molti suoi fedeli nei posti chiave. Lui stesso aveva dichiarato che gli attuali procedimenti bastavano, altrimenti il Paese sarebbe ripiombato nella guerra civile da cui è riemerso negli anni Novanta. Due mesi fa, i giudici istruttori del tribunale hanno bloccato prima del rinvio a giudizio il «procedimento numero 3» contro altri due ex esponenti del regime, diventati nel frattempo generali delle forze armate cambogiane. I parenti delle vittime e le associazioni che monitorano il lavoro del tribunale non hanno nascosto la loro indignazione: i sospettati non erano stati notificati e molti testimoni neanche interrogati, prove fondamentali sono state trascurate. Quattro membri del pool legale si sono dimessi in protesta, e il segretario generale Ban Ki-moon ha smentito «categoricamente» che l’Onu abbia spinto per un compromesso che garantisca la sopravvivenza di una corte messa su dopo interminabili negoziati, sempre più divisa al suo interno tra i suoi giudici internazionali e la componente cambogiana: tra i procuratori c’è anche la nipote del vice di Hun Sen. E l’avvocato di famiglia del premier è uno dei due difensori di Duch. Già la condanna all’ex aguzzino, per cui era stato chiesto l’ergastolo, aveva provocato polemiche e fatto piangere in aula i superstiti: ridotta a 19 anni effettivi tenendo conto del periodo di detenzione già scontato, potrebbe far tornare in libertà a 86 anni - o prima, in caso di buona condotta - l’uomo che teneva metodicamente il conto delle 15 mila vittime torturate nella sua prigione-lager. Duch almeno aveva collaborato, chiedendo perdono; poi stupì tutti domandando l’assoluzione perché «eseguiva solo gli ordini». Ora forse testimonierà contro i suoi quattro impenitenti ex superiori, tutti tra i 79 e gli 85 anni e con diversi problemi di salute. Se la storia li ha già giudicati colpevoli, c’è il rischio che la giustizia degli uomini non faccia in tempo.