Federico Fubini, Corriere Economia 27/6/2011, 27 giugno 2011
DRAGHI E I MALI (NASCOSTI) DELL’AMERICA
Dopo sette settimane di perdite, il Dow Jones ha chiuso venerdì scorso appena del 6%sotto i massimi degli ultimi tre anni. Perché preoccuparsi dell’America allora? Fra le ragioni offerte da Ben Bernanke per il più recente ciclo di creazione monetaria della Federal Reserve (quantitative easing 2) c’era anche il tentativo di sostenere i prezzi delle attività finanziarie. L’operazione è riuscita. Questo lunedì, però, mentre Mario Draghi inizia a cercar casa Francoforte, siamo entrati nell’ultima settimana di quantitative easing, eppure i mercati non sembrano ancora pronti a vivere senza. Non c’è solo il Dow Jones che vacilla. Sintomi di astinenza dalla morfina del sostegno pubblico si notano in molti angoli dell’economia e del dibattito americano. Ora che si sta esaurendo anche l’effetto del maxistimolo alla ripresa da parte dell’amministrazione, i segni di malessere sono ovunque. L’America crea molti meno posti di pochi mesi fa, la disoccupazione resta attorno al 9%e la Fed ha rivisto al ribasso le stime di crescita. Non stupisce che ovunque si senta parlare di nuove iniezioni di emergenza: la Casa Bianca ha appena immesso nel mercato la massa di riserve di petrolio più vasta dal ’ 91, anche se i prezzi del greggio erano già in calo da due mesi. Larry Summers, ex superconsigliere di Obama, propone di stimolare ancora i consumi con tagli alle tasse sul lavoro malgrado un deficit pubblico quasi al 10%del Pil. Nei mercati molti chiedono una nuova ondata di liquidità da parte della Fed. Priva di reti sociali per i disoccupati, l’America pensa quasi solo a dove trovare altra morfina. Gli investimenti in infrastrutture e nelle imprese esportatrici, l’istruzione dei ceti medi e dei disoccupati, un welfare leggero ma moderno, gli squilibri nei conti con l’estero sono tutte carenze che possono attendere. La grande crisi le ha rivelate come linee di frattura profonde. La risposta alla crisi, per ora, cerca di negarle.