Michele Ainis, l’Espresso 30/6/2011, 30 giugno 2011
UN GOVERNO A 43 FACCE
Il secondo gabinetto Prodi (2006-2008) aveva stabilito un record del mondo quanto a scranni di ministri, viceministri, sottosegretari: 102. Il quarto gabinetto Berlusconi rischia di fare ancora peggio. Solo che in questo caso i commensali si siedono un po’ alla volta, un po’ alla spicciolata, attorno al desco del governo. Mangiano in fretta, per lasciare posto al prossimo invitato. Entrano ed escono, come operai in una mensa aziendale. Per dirne una, alle Politiche agricole si sono alternati tre ministri (Zaia, Galan, Romano) nell’arco d’un triennio. E quando Alfano avrà abbandonato il dicastero di via Arenula, conteremo il nono avvicendamento fra i ministri del governo Berlusconi. Sicché facciamo parlare i numeri, le date. Quantomeno servirà a provare che in Italia non c’è affatto un esecutivo immobile: se è per questo, si muove pure troppo.
Al momento del battesimo (maggio 2008) il presidente del Consiglio era attorniato da 21 ministri e 37 sottosegretari. Una squadra agile, sotto la soglia di 60 unità fissata dalla legge 24 dicembre 2007, n. 244. Peccato che l’anno dopo il governo abbia corretto al rialzo quella legge, aggiungendo nuovi posti a tavola. E così nel maggio 2009 (ri)nasce il ministero del Turismo, per farvi accomodare la Brambilla. Contemporaneamente salgono a bordo cinque viceministri. In dicembre il ministero del Welfare si divide in due creature: a Sacconi il Lavoro, a Fazio la Salute. Sempre a dicembre, Bertolaso cambia delega (dai rifiuti in Campania alla protezione civile in Europa). Nel febbraio 2010 turnover di sottosegretari alla Semplificazione normativa (fuori Balocchi, dentro Belsito). A marzo giurano altri quattro sottosegretari, fra cui la Santanché. In aprile Galan subentra a Zaia al vertice dell’Agricoltura. A maggio Scajola lascia lo Sviluppo economico; quattro mesi dopo verrà rimpiazzato da Romani. Si dimette da sottosegretario anche Molgora (al suo posto Viale). Vegas ottiene la promozione a viceministro.
Tutto qui? Macché. A giugno una meteora solca i cieli del governo: quella di Brancher, ministro senza ministero per 17 giorni. A luglio si dimette Cosentino. A novembre il viceministro Urso, insieme al ministro Ronchi. Nel marzo 2011 Galan abbandona l’Agricoltura (entra Romano) per i Beni culturali (esce Bondi). In aprile esordisce un nuovo sottosegretario al Lavoro (Musumeci). Ma è appena un antipasto, perché a maggio arriva un’infornata di sottosegretari caldi caldi: nove. Tra i quali Villari (transfuga Pd), Catone (transfuga Fli), Cesario (transfuga Api), Misiti (transfuga Idv) e via transumando.
Noi, fin qui, non ci abbiamo fatto troppo caso. Ai nostri occhi il governo s’incarna nel faccione di Silvio Berlusconi, e Berlusconi è sempre lì, un uomo solo al timone dall’avvio della legislatura. Ma è un effetto ottico: ci abbaglia la personalizzazione del potere, sicché non ci accorgiamo del viavai fra le stanze del governo. D’altronde il partito personale, il presidenzialismo di fatto, il leaderismo sono altrettante invenzioni brevettate proprio da Silvio Berlusconi, e hanno poi trovato una schiera di seguaci sia a destra sia a sinistra. Solo che nel suo caso il populismo del Terzo millennio si coniuga con una pratica in auge durante l’Ottocento: il trasformismo. Ovvero il ballo in maschera descritto da Giosuè Carducci: "Trasformarsi da sinistri a destri senza però diventare destri e non però rimanendo sinistri".
Ecco, è su Carducci, è sul fantasma di Depretis che ha dovuto pronunciarsi il Parlamento, quando il 22 giugno è andata in scena la verifica chiesta da Napolitano. Il governo ci ha messo 47 giorni per accontentare il presidente, ha fatto spallucce, ha dichiarato che c’è poco da verificare, avendo già incassato per 43 volte la fiducia delle Camere. Errore: quegli altri voti di fiducia s’indirizzavano ai 43 governi Berlusconi che hanno preceduto l’ultima edizione.