Giornali vari, 28 febbraio 2011
Anno VIII – Trecentosessantadueesima settimana Dal 21 al 28 febbraio 2011 -Yara Il corpo di Yara Gambirasio, la tredicenne scomparsa il 26 novembre da Brembate Sopra (Bergamo), è stato trovato a una decina di chilometri dal suo paese, in località Chignolo: sabato 26 febbraio un padre di famiglia di 40 anni, appassionato di aeromodellismo, era andato a lanciare uno dei suoi velivoli su questo campo di sterpi ed erba alta, prossimo al torrente Dordo
Anno VIII – Trecentosessantadueesima settimana Dal 21 al 28 febbraio 2011 -
Yara Il corpo di Yara Gambirasio, la tredicenne scomparsa il 26 novembre da Brembate Sopra (Bergamo), è stato trovato a una decina di chilometri dal suo paese, in località Chignolo: sabato 26 febbraio un padre di famiglia di 40 anni, appassionato di aeromodellismo, era andato a lanciare uno dei suoi velivoli su questo campo di sterpi ed erba alta, prossimo al torrente Dordo. L’apparecchio è caduto a un passo dal cadavere, e quando l’uomo è andato a recuperarlo ha visto la morta ridotta quasi a uno scheletro, supina, con le braccia in alto sopra la testa, un ciuffo d’erba tra le dita. Ha telefonato al 113, s’è fatto interrogare e poi, sotto choc, s’è chiuso in casa. Subito s’è capito che si trattava di Yara: aveva ancora indosso, ridotti in brandelli, i pantacollant scuri, la maglietta della Polisportiva Bergamasca, il giubbetto Hello Kitty, l’elastico rosso con cui teneva fermi i capelli a coda di cavallo, in bocca l’apparecchio per i denti. Vicino, l’iPod, la sim, la batteria del cellulare (ma non il telefonino, che il killer ha subito disattivato e fatto sparire). Mentre scriviamo, l’autopsia deve ancora essere eseguita, ma è già chiaro che Yara è stata uccisa a coltellate. C’è una ferita all’altezza del torace, una al polso e altre quattro alla schiena. Dunque, dopo un primo fendente, la bambina deve essersi difesa alzando una mano (taglio al polso), poi s’è probabilmente girata per fuggire ed è stata ripetutamente colpita alla schiena. La conclusione degli investigatori è che l’assassino deve essere uno del posto o comunque uno che conosceva bene la zona: ha guidato al buio verso il campo di sterpi, un posto dove le coppiette vanno di notte a far l’amore e che di giorno fa da pista a quelli che fanno jogging o portano a spasso il cane. Non è un luogo troppo isolato, alla fine: vicino c’è la discoteca “Sabbie mobili” e capannoni industriali. Strade intitolate a musicisti (Verdi, Rossini, Mascagni) incrociano a poche decine di metri. E, soprattutto, le squadre di ricerca sono passate su quel punto molte volte in questi tre mesi di battute. Sembrerebbe quindi plausibile l’ipotesi che il cadavere sia stato portato lì in un secondo momento, forse lo stesso giorno del ritrovamento. Ma è una teoria a cui gli investigatori non credono o credono poco. «I cadaveri non si vedono», spiegano. Inutile soffermarsi sullo strazio dei genitori, costretti a una trasferta a Milano per riconoscere la salma.
Gheddafi La situazione in Libia è questa: la Cirenaica è in mano ai rivoltosi, che a Bengasi hanno addirittura formato un governo provvisorio, detto Consiglio nazionale transitorio, formato da 15 persone, in genere giudici o avvocati. Lo guida Mustafa Abdal Jalil, fino a pochi giorni fa ministro della Giustizia di Gheddafi. Domenica sera era già vivo un movimento che ne chiedeva la dimissioni, mentre lui promette elezioni entro tre mesi e ha dato l’avvio al reclutamento di volontari. In città vi sono gravi problemi di ordine pubblico. A Tripoli, intanto, Gheddafi se ne sta chiuso nella sua residenza di Bal-al-Azizya, mentre da tre giorni si dice che i ribelli siano a un passo dal conquistare la città. Il colonnello è apparso due volte in televisione, lunedì 21 e martedì 22, e la seconda ha pronunciato un discorso «spaventoso» (Angela Merkel). Più o meno: «Non mi arrenderò mai. Combatterò fino alla morte. C’è anche al Qaeda dietro tutto questo, e gli americani che aspettano la presa di potere dei fondamentalisti islamici per intervenire, come hanno fatto in Iraq e in Afghanista». Una tesi che Gheddafi ha ripetuto in una telefonata alla tv di stato (giovedì 24) e poi sulla piazza Verde, in un comizio gridato davanti a un migliaio di persone venerdì 25. Il mondo ascolta questa interpretazione dei fatti come un delirio, pure anche dal lato dei buoni (per dir così) sono arrivate notizie assai dubbie. S’è parlato – e noi stessi lo abbiamo scritto – di diecimila morti e di inauditi massacri. Ma non c’è però un’immagine o un video che documenti queste efferatezze. Il rais ha veramente fatto bombardare dal cielo il suo popolo, come abbiamo scritto tutti? Le agenzie internazionali, nemiche in blocco del colonnello, lo hanno sostenuto, ma non c’è un fotogramma che lo documenti. La disinformazione ha forse raggiunto il suo culmine quando è stato diffuso un video in cui si vedevano uomini e donne affaccendarsi intorno a fosse scavate sulla spiaggia. La didascalia spiegava che il numero dei morti era talmente alto, che s’era dovuto approntare in tutta fretta un camposanto nel posto dove si va in genere a fare il bagno. Poche ore, e si scopre l’inganno: erano immagini riprese in un giorno qualunque di chi sa quando, mostravano un cimitero normale, tombe normali e normali familiari addolorati per la scomparsa di un loro caro.
Sbocchi della crisi libica I ribelli sarebbero dunque alle porte di Tripoli e, se questo è vero, il colonnello avrebbe poche ore o pochi giorni di vita. Ma è possibile anche che la crisi sviluppi invece in una guerra civile, lunga, sanguinosa e dall’esito incerto. Forse l’Onu manderà i caschi blu, una linea a cui resistono per ora russi e cinesi, che vogliono giocare un ruolo nell’area e non concedere vantaggi agli Stati Uniti. L’Onu ha approvato una serie di sanzioni: congelamento dei beni all’estero di Gheddafi e della sua famiglia, divieto di vendergli armi, divieto di accoglierli all’estero, in caso di fuga. L’Italia ha sospeso il trattato di amicizia che ci impegnava a investire cinque miliardi in Libia, come riparazione dei danni prodotti all’epoca coloniale. Non è una notizia del tutto buona: quei soldi sarebbero finiti in gran parte nelle tasche delle imprese italiane incaricate di costruire laggiù delle infrastrutture. Ci sono poi altri due miliardi e mezzo di commesse che finora la Libia ci ha garantito e che sono evidentemente sfumate. Altro problema: la Libia ci ha dato finora il 24% del petrolio e il 12% del gas di cui abbiamo bisogno. Tutti assicurano che sono forniture facili da rimpiazzare e, per esempio, i sauditi si sono detti pronti a vendere a chiunque il greggio che manca. Ma è una promessa tutta da verificare, si intreccia con la volontà dell’Opec di aumentare la produzione (l’Opec per ora si rifiuta di riunirsi) e con l’incognita del prezzo del greggio, che ha toccato la settimana scorsa la punta di 120 dollari al barile. La stessa Arabia Saudita, secondo le analisi degli esperti, è poi un paese a rischio rivoluzione. C’è poi la questione delle partecipazioni detenute dai libici nelle nostre aziende: Unicredit, Finmeccanica, Eni, la Juventus. In borsa questi titoli sono già precipitati, e soprattutto i libici sono spariti. Dieter Rampl, presidente di Unicredit (Tripoli possiede il 7,5% della banca), sta cercando disperatamente il governatore della Bank of Lybia, Farhad Omar Bengdara, ma non riesce a trovarlo da nessuna parte. Mistero assoluto, quindi, sul destino di quelle azioni, tra l’altro forse congelate dalle sanzioni. C’è infine la questione dei profughi: gli africani hanno adoperato la Libia come il trampolino per emigrare clandestinamente in Europa, approdando innanzi tutto in Italia. Il trattato di amicizia, ora denunciato, prevedeva che Gheddafi li bloccasse. Non si è ancora visto nessuno, ma i nostri politici sono certi di sbarchi imminenti, parlano di esodo biblico e di trecentomila disperati in arrivo. Le richieste di aiuto all’Europa hanno finora prodotto un buco nell’acqua. È un problema che dovremo risolverci da soli.