Marco Cicala, il Venerdì di Repubblica 27/5/2011, 27 maggio 2011
LATOUCHE, QUEI NO CHE AIUTANO A DECRESCERE
Avevate impegni per il 2020? Annullateli tutti. Sarà l’anno di una crisi epocale delle risorse non rinnovabili. Già che ci siete, cancellate pure gli appuntamenti del 2040: il tasso d’inquinamento raggiungerà livelli da strage planetaria. Quanto al 2070, che dire? Se avevate gente a cena mandate a monte sin da subito: la penuria alimentare non lascerà scampo. È con queste giulive previsioni che si apre Il tempo della decrescita (Eleuthera, pp. 109, euro 10, trad. Guido Lagomarsino) – l’ultimo libro dell’economista Serge Latouche, scritto con il collega Didier Harpagés.
Ma non è eco-terrorismo millenaristico. Loro la chiamano «pedagogia della catastrofe». Una propedeutica all’abisso che ci attende. Se il cieco modello produttivista non si darà una regolata. E noi con lui. Come? Decrescendo. Liberandoci dall’ipnosi dello sviluppo illimitato. E killer. «Epperò» osserva Latouche «non sempre i disastri servono da lezione. Pensi alla crisi. Finora non ha prodotto un vero ripensamento del sistema che l’ha generata. Dalle oligarchie che ci governano è stata sostanzialmente spazzata sotto il tappeto. Al contrario, la tragedia di Fukushima ha riaperto la questione nucleare, un dibattito dato per morto o considerato tabù. Voi in Italia ne sapete qualcosa. Anche se la politica sta facendo di tutto per affondare i referendum su atomo ed acqua».
In sintesi: «Ogni catastrofe è un bivio: può costituire una chance di miglioramento, presa di coscienza, o di arroccamento al peggio».
Ma che significa descrescere? Parecchie cose. Innanzitutto frugalità. Concetto spinoso. Però a chi lo accusa di voler mettere il cilicio ad economia e comportamenti Latouche ripete: «Non si tratta di produrre e consumare meno, ma meglio». La parola decrescita aleggiava dagli anni Settanta, ma nell’ultimo decennio è stato lui a farla trottare per il mondo. Anche grazie a un’infaticabile predicazione a base di interventi, manifesti, molti libri. Risultato: i descrescisti crescono, si moltiplicano, dibattono, certe volte litigano e, secondo le migliori tradizioni sinistre, si scindono in sottoinsiemi: moderati e radicali, sereni o più crucciati...
Ma non c’è ombra di tremendismo profetico sul volto di Serge Latouche. È un signore di 71 anni. Sorriso serafico nella barba canuta. Appare sul boulevard appoggiandosi a un bastone. A Parigi riceve nel bar sotto casa, quinto arrondissement. Che ordina al cameriere il padre di tutti decrescisti? Caffè. E un bicchiere d’acqua. Del rubinetto. S’il vous plait. Insomma, niente bio-tisane o infusioni sciscì. Non vuol dire che Monsieur Serge si conduca da consumatore irre-
sponsabile.
Non ha tv. Il computer sì. Ma lo usa con parsimonia. Si sposta il più possibile in treno (possibilmente a bassa velocità). Qualche volta guida un’acciaccata Volkswagen. Con la bicicletta ha dovuto smettere. Perché le gambe non sono più quelle giuste e perché nei Pirenei Orientali – dove si rifugia a scrivere – certe salite stroncherebbero perfino un ginnasiale. Non ha telefonino.
Prova vivente che senza cellulare campare si può. Qualcuno sfotte la sua decrescitaritenendola una filosofia snob, eco-chic. Prendi il cibo: quello non industriale costa per lo più un occhio della testa, delizia per palati abbienti. Le moltitudini, loro, stanno incolonnate al discount.
«È vero» dice Latouche, «mangiare roba sana è oggi un lusso. Ma perché viviamo in una società della crescita. L’agricoltura resta dentro la logica produttivista. E tutto quanto è bio rimane praticamente precluso ai più. Non dimentichiamo, però, che le abitudini si sono modificate. Negli anni Cinquanta il 40 per cento dei budget familiari andava in alimentazione. Oggi solo il 18. Si spende più per la telefonia che per il cibo». Anche per
questo i decrescistimartellano che bisogna «decolonizzare l’immaginario». Traduci: spezzare automatismi e riti del consumo, reinventare il quotidiano, buttare al secchio le tecno-idolatrie, riappropriarsi del tempo, frenare il prestissimo dell’innovazione fine a se stessa, quella che ci ingorga la vita di merci (auto, computer, cellulari...) concepite secondo il principio dell’«obsolescenza programmata», cioè fatte per evaporare più che per essere utilizzate.
E invece no: rallentate, gente, rallentate – salmodiano i latouchiani. Una parola. Se non altro perché nell’evo del turbo-mercato, il disastro sembra diventato una prospettiva sostenibile, una specie di animale da cortile, l’homo occidentalis ha imparato a coabitarci.
Oltretutto, annunciare cataclismi è ormai un mestiere come un altro, dà da vivere a legioni di specialisti, organismi, tecnoburocrazie. «La dittatura degli esperti». Mentre Apocalypse is now– ricorda Latouche. «Oggi la catastrofe è qui. Sa quante specie animali e vegetali scompaiono ogni giorno?». Sentiamo. «Tra cinquanta e duecento». Poi non dite che non v’avevano avvertito.
Eppure sulla decrescita piovono pietre. Critiche da ogni dove. Quando Latouche & friends propugnano, ad esempio, un ritorno al localismo, a un’economia di pros- simità («Oggi uno yogurt percorre 9.115 chilometri per arrivare sulla nostra tavola; un vestito attraversa normalmente una decina di Paesi e 60 mila chilomeri provocando lungo la strada inquinamenti di ogni sorta»), gli ultrà della globalizzazione se la ridono. E anche i “progressisti” di sinistra sghignazzano. Liquidano la decrescita come una robinsonata, un’utopia regressiva, nostalgica, riconducibile a quel proto-socialismo «reazionario» che si attirò gli strali di Marx. Col barbuto di Treviri il barbuto Latouche ha rapporti agrodolci. Non gli piace il Marx esaltato dalla crescita, dalle forze produttive che in realtà «sono altrettanto, se non di più, distruttive».
E pensare che, negli anni 60 Serge Latouche si laureò con una tesi ortodossetta sullo Zaire, nella quale sosteneva che l’unica ricetta per uscire dal sottosviluppo fosse lo sviluppo pianificato:
più accumulazione di capitale, più velocità, più tecnologia. Trent’anni dopo si sarebbe ricreduto. L’illuminazione sulla via di Damasco avvenne in Laos. Lì scoprì comunità che «non erano né sottosviluppate ne sviluppate: vivevano semplicemente al di fuori del nostro modello di crescita. Lavoravano ma senza lasciarsi divorare la vita dal lavoro».
Un giorno vide un contadino che contemplava inoperoso una risaia. Che fai? – chiese l’economista. E quello: «Niente. Ascolto il riso crescere». Raccontando aneddoti del genere, Latouche è perfettamente consapevole del rischio di venir considerato un romantico terzomondista fuori tempo massimo. Sorride: «Io non ho mai detto che certe economie africane o asiatiche debbano essere il modello della decrescita in Occidente. Però possono offrirci spunti». E, tuttavia, come si diceva anticamente, il pro-blema è – pure – politico.
La descrescita è un movimento dal basso? O anche dall’alto?
In questo caso chi dovrebbe governarlo? I partiti? Gli Stati? Gli organismi transnazionali? Non solo. Quale autorità può decidere di cosa hai realmente bisogno e in che quantità, senza rica- dere nell’horror delle vecchie economie di piano?
«Per quanto vaga possa apparire, la mia risposta è: la democrazia. Che, certo, va ripensata. Oggi è pura meccanica elettorale. Mentre dovrebbe essere la sede in cui scegliamo che tipo di società e di vita vogliamo».
Se non fosse che chi oggi si ribella e rovescia dittature, come in Nordafrica, vuole democrazia ma anche più ricchezza in senso capitalistico, dunque: crescita. «Sarebbe assurdo pretendere decrescita da società che non hanno livelli di vita accettabili. E che, come l’Albania a suo tempo, hanno costruito il loro immaginario guardando lo show del benessere offerto dalle tv occidentali». Magari si parlerà anche di questo al prossimo summit che i decrescisti organizzeranno a Venezia nel settembre 2012. Per dire no a mistici della globalizzazione ed altri bacia Pil. Quei no che aiutano a decrescere.