Varie, 28 maggio 2011
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Khakpour Porochista
• Teheran (Iran) 17 gennaio 1978. Scrittrice • «“Il primo ricordo della mia vita risale a quando avevo due anni e mezzo e ho visto i missili della contraerea nel cielo di Teheran. Era l’epoca della guerra Iran-Iraq, e i missili erano nostri, ma questo non lo sapevamo. Nel mio ricordo sono in braccio a mia madre davanti a un rifugio antiaereo, e lei sta piangendo. Da allora ho sempre avuto il terrore di qualunque cosa voli nell’aria. Per cui immaginatevi lo choc dell’11 settembre. Pensavamo di esserci trasferiti in una terra senza terroristi, e di colpo era come se il Medio Oriente ci avesse raggiunti” [...] ragazza a metà tra Amy Winehouse e Audrey Hepburn [...] un incidente in taxi che nel 2005 le ha portato via parte della faccia (ricostruita alla perfezione) [...] giornalista al Village Voice [...] quando l’editore americano Grove/ Atlantic ha comprato i diritti del suo romanzo d’esordio [...] e ha voluto pubblicarlo in tutta fretta senza revisioni, le è venuta una tale crisi d’ansia da farla precipitare in uno stato di anoressia grave. [...] Suo padre è un fisico nucleare con un dottorato al Mit di Boston. Sua madre è la figlia del presidente della National Iranian Oil Company e la nipote del vice primo ministro e fondatore del programma nucleare della Persia dello Shah. Porochista è nata a Teheran, è scappata con i suoi in California quando aveva tre anni, e crescendo americana ha trovato una voce letteraria piena di umorismo, intelligenza, ingenuità, allegria, tristezza, onnipotenza e frustrazione. Una voce che si potrebbe definire massimalista (ma si potrebbe anche ripescare la definizione di “realismo isterico” coniata da James Woods per la Zadie Smith della prima ora), se non rappresentasse anche la metà più spregiudicata, giovane, innovativa, scurrile e liberal della diaspora intellettuale iraniana. Dove l’altra metà è rappresentata dai romanzi anglo-iraniani che ostentano il proprio conformismo fin dal titolo “speziato” (tipo: Pollo allo zafferano), e dal conservatorismo di Azar Nafizi, il cui bestseller Leggere Lolita a Teheran, con la sua educata nostalgia per il passato pre-rivoluzionario dell’Iran e la sua rappresentazione di un Paese che chiede di essere salvato dalla più abbietta censura culturale, ha portato per anni acqua al mulino della destra neocon che invocava la necessità di “esportare la democrazia in Iraq” con le maniere forti. Quella voce spregiudicata è la prima cosa che colpisce fin dal titolo in Figli e altri oggetti infiammabili, un romanzo d’immigrazione politicamente scorrettissimo, i cui protagonisti sono un ragazzo traumatizzato e ribelle che si chiama Xerxes come Serse il figlio “perdente” di Dario, e il suo cinico e disilluso padre Darius come Dario il re dei persiani. Di cognome farebbero Odd-damn, ma in America diventano Adam, e come dice Darius a Xerxes bambino: “Se ti chiedono se sei parente di Adamo tu digli di no”. Colmo dell’ironia, Darius e Xerxes e Laleh la mamma, in fuga anche loro dai missili di Teheran, si ritroveranno a vivere in un condominio californiano che si chiama “Giardino dell’Eden”. Questo, s’intende, prima che padre e figlio litighino e Xerxes se ne vada a studiare in un college della East Coast, per finire a vivacchiare a New York fino a quella splendida, tersa mattina di settembre del 2001, in cui, insieme alle Torri, andrà in frantumi anche la sua fragile identità. “Non so cosa sia stato più inconcepibile— ricorda Porochista che ha visto la tragedia delle Torri dalla finestra —, se assistere in prima fila al più devastante spettacolo cinematografico della mia vita, o diventare cittadina americana due mesi dopo, giurando fedeltà alla bandiera in un palazzo di Brooklyn dove si sentiva ancora puzza di bruciato”. Scriverne, dice, è stata la sua terapia. E scegliere la forma di un romanzo brillante e maleducato, è stata la sua ribellione all’ondata di narrativa e memorialistica “etnica e melensa” che ha invaso il mercato americano da Leggere Lolita a Teheran, in poi. ”Dovrebbero prendersi un po’ meno sul serio e scrivere un po’ meglio! Non se ne può più della zuccherosa sincerità di questi libri, del loro ammirevole contegno e calcolata accettabilità. Non se ne può più di quello che scrivono gli iraniano-americani — che poi son tutte donne. I loro memoir sono pieni di donne velate e stereotipate, di orientalismo e colonialismo”. Così, dice, stanno le cose a “Terangeles”, ovvero nella sontuosa Beverly Hills dei fedeli allo Shah. E anche se la famiglia di Porochista abita più modestamente a Pasadena, lei ammette che ciò che l’ha salvata dal diventare “la Ann Coulter iraniana”, è stato partecipare con i genitori a una manifestazione di protesta a Washington nell’87, ed essere strappata alla noia dall’improvvisa visione di un uomo che si dava alle fiamme (era lo scrittore pacifista Neush Farrahi e morì due settimane dopo). In sostanza, è come se in Figli Porochista ci dicesse: venite a vedere cosa significa crescere in una famiglia che ha nostalgia del Paese da cui è fuggita, e vive in uno da cui si sente estranea. Sperimentate anche voi “come sono soffocanti per i figli degli immigrati i ricordi dei genitori, e come si desideri solo ricominciare da zero”. Ma soprattutto venite a vedere come, quando da un lato ti vergogni della violenza degli ayatollah e dall’altro ti senti morire scoprendo che mamma e papà bevevano Martini al country club mentre la polizia segreta dello Shah torturava e uccideva — venite a vedere come l’unica salvezza dal naufragio dell’identità sia la capacità di giocare con un idioma semplice e ricchissimo come quello inglese, che è l’unico, vero, potente strumento di reinvenzione, almeno da Nabokov in poi» (Livia Manera, “Corriere della Sera” 31/3/2009) • Vedi anche: Antonello Guerrera, “Il Riformista” 31/3/2009; Maria Serena Palieri, “l’Unità” 2/4/2009.