Andrea Nicastro, Corriere della Sera 28/05/2011; Stefano Montefiori, ib., 28 maggio 2011
2 articoli – NEL VILLAGGIO DOVE MLADIC E’ UN EROE: «DOVEVAMO DIFENDERLO CON LE ARMI» — Branko Mladic, il nipote del «macellaio di Srebrenica» , è già tornato al lavoro
2 articoli – NEL VILLAGGIO DOVE MLADIC E’ UN EROE: «DOVEVAMO DIFENDERLO CON LE ARMI» — Branko Mladic, il nipote del «macellaio di Srebrenica» , è già tornato al lavoro. E lo si può capire: anche se lo zio generale ha chiuso qui i suoi imbarazzanti sedici anni di latitanza, c’è il fieno da tagliare, le mucche e le galline da accudire, una vita da tirare avanti. Eppure, abituati a una certa iconografia, fa impressione vedere un Mladic venirti incontro a grandi passi con una falce luccicante in mano. «Gospodin Branko» , signor Branko, per favore. Cinquantadue anni, il nipote dell’ex latitante più famoso d’Europa, alza lo sguardo oltre il cancello che chiude la sua fattoria di via Karadzic a Lazarevo e urla qualcosa che non è proprio un augurio. Il messaggio è chiaro. Non vuole parlare di cosa è successo all’alba di giovedì e del perché il generale serbo che assediò Sarajevo per tre anni sia stato così ingenuo (o disperato) da nascondersi proprio da lui, un parente, in un luogo perquisito più volte, probabilmente sorvegliato e comunque sospetto. Il solitario nipote Branko non vuole parlare forse perché lo aspetta un’incriminazione per complicità. O forse perché, al contrario, lo aspettano i 15 milioni di dollari di taglia per aver segnalato qui a casa sua l’assassino di 8 mila bosniaci maschi di Srebrenica. «Lasciatelo in pace. Andatevene da qui» . Sono i vicini a proteggerlo, restando seduti su seggiole di ferro all’ombra dei filari di ciliegi che costeggiano le strade di Lazarevo. La stretta di mano ai giornalisti è molto più della morsa di un contadino. È una punizione. «Mladic è il nostro eroe nazionale. Se ci avesse detto che era qui, avremmo montato le barricate per difenderlo» . Pochi denti, rughe profonde, muscoli potenti, idee chiare. «Noi serbi siamo diventati corruttibili e voi, voi occidentali, avete i mezzi per corrompere. Mi vergogno che il protettore dei serbi di Croazia e di Bosnia sia stato catturato qui» . «Vedrete. Questo paese non si chiamerà più Lazarevo, ma Mladicevo in suo onore» . Non sarebbe il primo cambio di nome. Ai tempi degli Asburgo era Lazarfeld ed era abitato da tedeschi che però, nella Seconda guerra mondiale, si schierarono con Hitler. La vendetta del maresciallo Tito fu implacabile. I tedeschi vennero deportati, le loro case assegnate ai partigiani e Lazarfeld ribattezzata Lazarevo. «Siamo tutti serbi di Bosnia, di Kalinovo o Bojanovich» . Proprio le città dove ancora oggi vive parte della famiglia Mladic. A Lazarevo, invece, oltre al nipote Branko ci sono un anziano zio, Dragan, e un cugino. «All’alba di giovedì— racconta un poliziotto davanti alla fattoria— tutte e tre le abitazioni dei Mladic sono state circondate. Lui, il generale, stava preparandosi a uscire» . Segno, se fosse confermato, che la soffiata lo indicava, senza precisione, ospite di parenti. Sotto i ciliegi i tre si danno il cambio nel tenere banco. Niente nomi però. «E’perché voi giornalisti non siete imparziali. Mladic macellaio? Perché non portano all’Aja gli assassini croati e musulmani? Solo nella mia famiglia 17 giovani sono stati uccisi nelle guerre degli anni 90, ma nessuno è stato condannato per la loro morte» . Erano combattenti? «Non è questo il punto. Il punto è che il generale Mladic è l’unico che ha cercato di difenderli» . In bicicletta si aggiunge alla discussione un tipo più giovane, che ha lavorato in mezza Europa come piastrellista. Italia compresa. «La verità è che la Jugoslavia faceva gola ai tedeschi che hanno trovato tra i nostri politici i complici per distruggerla. Prendi la città qui vicino, Srenjanin. Con Tito c’erano fabbriche di birra, di olio, di conserve, insaccati, acciaio, vagoni ferroviari, imbarcazioni. Oggi resta solo la fabbrica di olio per di più di proprietà croata. Il resto è stato privatizzato e poi chiuso. Così noi siamo disoccupati. Mladic è stato tra i pochi ad opporsi» . Sulla vita del fuggiasco in questo villaggio di nostalgici nazionalisti si sa ancora poco. Al momento dell’arresto aveva in tasca la sua carta d’identità scaduta e avrebbe ammesso: «Sono il generale Ratko Mladic» . Consegnando i valori avrebbe anche tracciato una sorta di testamento: l’anello con una pietra nera che portava anche al tempo della guerra andrà al fi- glio; l’orologio d’oro alla moglie. «Hanno arrestato un uomo morto» titolava il tabloid Alo. È la linea difensiva della famiglia. «Mio padre ha avuto due ictus, la parte destra del corpo è semiparalizzata, non può sostenere un processo» , afferma il figlio Darko. Ma procuratore e medici hanno trovato l’imputato adatto al giudizio. Per la controperizia la famiglia ha incaricato due medici russi, lunedì ci sarà l’udienza d’appello, quindi, entro la settimana l’eventuale estradizione all’Aja. Per quanto malfermo il generale ha battibeccato con il giudice dandogli del «servo della Cia» . Più calmo ha chiesto dei romanzi di Lev Tolstoj e delle fragole. Appena il necessario per addolcire il suo ultimo weekend in Serbia. Andrea Nicastro «QUELLE PARTITE A SCACCHI CON IL MALE» — «Mi incontravo con Ratko Mladic ogni settimana. Era lui a comandare, e quindi era con lui che dovevo negoziare. Credeva di essere Napoleone, gli piaceva farsi chiamare così dai suoi uomini» . Philippe Morillon, 75 anni, oggi esponente del partito centrista «Modem» di François Bayrou, è stato il comandante delle forze Onu in Bosnia Erzegovina (Forpronu) dal settembre 1992 al luglio 1993. La sua vita è legata a Srebrenica, perché ha fatto tutto il possibile per salvarla, e non è bastato. Lo chiamavano «generale coraggio» , ma due anni dopo avere lasciato l’incarico il suo nemico Ratko Mladic entrò nella cittadina musulmana e massacrò 8000 mila uomini e ragazzi. Proprio quell’orrore che Morillon aveva cercato di scongiurare. Qual è stata la sua reazione quando ha saputo dell’arresto di Mladic? «Sollievo. L’incubo è finito. Quell’uomo era convinto di rappresentare la salvezza per il suo popolo, invece l’ha condotto nel baratro. Oggi anche i serbi, non solo di Bosnia, possono tornare a sperare» . Che rapporto aveva con lui? «Cercavo di farlo ragionare, e quanto a me puntavo a non venire percepito come l’alleato di una sola parte. Volevo ottenere la sua lealtà. Radovan Karadzic non contava nulla. Era solo un burattino. Il potere ce l’aveva Mladic» . Lei si rifiutò di stringergli la mano davanti alle telecamere di tutto il mondo. «Aveva tradito la parola data, e ho cercato di fargli pagare almeno quel prezzo, colpendolo sull’onore» . E’vero che giocò a scacchi con lui? «Sì, una volta abbiamo aspettato insieme altri comandanti militari per concordare una tregua. Siamo riusciti a finire la partita. Ha vinto lui, peraltro» . Lei nel marzo 1993 ebbe il coraggio di rompere il primo assedio di Srebrenica, di salire in piedi su un blindato promettendo ai musulmani che li avrebbe protetti. Si è trasformato volontariamente in scudo umano. «Dovevo farlo, non potevo lasciare che la pulizia etnica facesse il suo corso. Era un segnale ai musulmani, e anche ai serbi. Dovevano capire che qualcuno avrebbe cercato di fermarli» . «Non vi abbandonerò» , disse. Due anni dopo, la più spaventosa strage nell’Europa del dopoguerra. «Continuo a pensare a quei giorni. E’molto doloroso. Non riesco a biasimare i miei successori, e neanche i soldati olandesi sui quali è caduta la colpa. Posso solo dire che, quando ero sul terreno, ho avuto un ruolo militare e anche politico, che poi non è stato più concesso al comandante delle forze Onu. Ero a capo di una missione umanitaria, ma svolgevo anche il ruolo di mediatore. E per farlo in modo efficace dovevo mostrarmi determinato. La dottrina moderna del "rischio zero"applicata alle missioni militari non funziona. Quel poco di buono che ho fatto, prima del disastro del 1995, l’ho ottenuto stando al gioco del rapporto di forza, l’unico che gente come Mladic poteva concepire» . Ha dei rimpianti? «Certo, quello di non avere evacuato Srebrenica. Nel 1993 avrei ancora potuto farlo. Ma è facile dirlo oggi, dopo che il massacro è avvenuto. Ero riuscito a convincere il presidente serbo Milosevic a risparmiare Srebrenica, spiegandogli che un massacro avrebbe macchiato l’immagine dei serbi per sempre. All’epoca credevo che il piano di pace Vance-Owen avrebbe funzionato, che a Ginevra si sarebbe arrivati agli accordi di pace. E’stato Mladic a farli fallire» . Lo scorso 3 settembre, lei è tornato a Srebrenica per visitare il Memoriale di Potocari. La gente l’ha cacciata via, e lei ha chiesto perdono. «Ho chiesto perdono a nome dell’Occidente, e dell’Onu. Oso sperare che le madri delle vittime che mi hanno accusato non ce l’avessero con me personalmente, ma che mi vedessero come il rappresentante di un mondo che non è riuscito a salvarli» . Stefano Montefiori