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 2011  maggio 27 Venerdì calendario

Il liberale che fiancheggiò il fascismo - Quando lo incontrò di persona, all’in­d­omani della mar­cia su Roma, il mar­chese Giuseppe Salvago Raggi, no­me mitico della diplomazia italia­na postunitaria, si trovò davanti un Mussolini diverso dal perso­naggio trasandato e bohèmien che aveva intravisto alla conferen­za di Cannes

Il liberale che fiancheggiò il fascismo - Quando lo incontrò di persona, all’in­d­omani della mar­cia su Roma, il mar­chese Giuseppe Salvago Raggi, no­me mitico della diplomazia italia­na postunitaria, si trovò davanti un Mussolini diverso dal perso­naggio trasandato e bohèmien che aveva intravisto alla conferen­za di Cannes. Adesso era un signo­re in redingote, immerso nel ruo­lo di governante, aveva l’aspetto di uomo serio e severo, lo sguardo duro. La diversità tra i due spicca­va. Anche Salvago Raggi era auste­ro e impeccabile, ma il portamen­to rivelava la dignità e l’autorevo­lezza del notabile dell’età libera­le, aristocratico nel tratto e nelle convinzioni, estraneo a suggestio­ni rivoluzionarie, incrollabile ser­vitore dello Stato. I due rappresen­tavano mondi, al fondo inconci­liabili, che, allora, ebbero modo di scrutarsi e misurarsi: mondi che non avrebbero potuto convi­vere tranquillamente. La descrizione dell’incontro conclude il volume di memorie di Giuseppe Salvago Raggi (1866-1946) Ambasciatore del Re. Memorie di un diplomatico del­l’Italia liberal e (in uscita per Le Lettere: un volume che ripercor­re la vita straordinaria, per certi av­venturosa, divisa tra l’Oriente e l’Africa,di uomo che fu spettatore e protagonista di eventi come la rivolta dei Boxer in Cina e di una fase significativa della colonizza­zione italiana come governatore dell’Eritrea.Le pagine sull’incon­tro sono poche ma importanti perché rivelano in controluce il dramma dei «fiancheggiatori» li­berali che avrebbero finito per contribuire al successo del fasci­smo e al suo radicarsi nel tessuto paese.Indicative,in proposito,so­no le battute che il diplomatico, ri­spondendo a Mussolini, riservò alla classe politica. Battute impie­t­ose contro Francesco Saverio Nit­ti, che «sapeva di condurre il suo paese alla rovina e su quella rovi­na voleva innalzare se stesso» e battute, solo in apparenza, più te­ner­e per un Vittorio Emanuele Or­lando e un Giovanni Giolitti, inca­paci di ben governare perché «ac­cecati dalla retorica parlamenta­re l’uno, dalla mentalità gretta l’al­tro » anche se onesti nel credere di «conciliare il minor male del pae­s­e con la loro permanenza al pote­re ». Ma anche battute amare che rivelano la delusione nei confron­ti di Luigi Sturzo che dava «l’im­pressione di un prete fanatico in politica come un Savonarola, con idee ristrette e campanilistiche». E poi l’uscita, tipica da liberale conservatore, di Salvago Raggi sul fascismo che avrebbe potuto suscitare le sue simpatie- in quan­to reazione contro nittismo, popo­larismo e parlamentarismo - se non avesse avuto il difetto d’origi­ne d’essere repubblicano. Negli anni a venire, Salvago Rag­gi si chiuse in se stesso senza svol­gere, per quanto senatore del Re­gno, attività pubblica. Preferì guardare con distacco gli sviluppi politici. Si limitò a scrivere, quasi per gioco intellettuale, articoli non destinati alla pubblicazione e appunti. Sono testi dai quali emerge la disillusione di un uo­mo della vecchia Italia liberale da­vanti a un Mussolini che confer­mava la storia dell’apprendista stregone e a un fascismo che tradi­va le speranze di chi lo aveva visto come una modalità di restaura­zione dell’ordine e una reazione al parlamentarismo esasperato. Significativi, come tentativo di ripensamento globale del perio­do fascista, sono gli appunti che Salvago Raggi buttò giù, a caldo, dopo il crollo del regime.All’indo­mani del 25 luglio, annotò che avrebbe sconsigliato Badoglio di «sciogliere quella ridicola Came­ra dei Fasci e delle Corporazione » per non trovarsi senza Parlamen­to «come in realtà siamo ora», an­che se «nessuno se ne accorge»es­sendo tutti impegnati a gridare contro il fascismo «specialmente quelli che più ne erano entusia­sti ». Il 9 settembre, dopo la diffu­s­ione della notizia della firma del­l’armistizio, scrisse che, ascoltan­do il comunicato di Badoglio, si sa­rebbe messo a piangere «per l’umiliazione del mio paese e per il disastro nel quale quello sciagu­rato ci ha trascinati». L’8 maggio 1944, mentre infu­riava la guerra civile, tentò un bi­lancio del fascismo, convinto di poterlo tratteggiare - lui che non aveva chiesto nulla al regime ­«senza rancore e senza ingratitu­dine » sottolineando «con sereni­tà » quanto riteneva vi fosse stato «di utile per il Paese nostro nel fa­scismo »e«cosa di cattivo»e,anco­ra, perché «quel tanto di buono» si sarebbe rivelato«sterile per l’in­felice nostro Paese ».La«prima ca­­ratteristica del Fascismo che atti­rava le simpatie di molti » era il fat­to che volesse «stabilire un Gover­no forte» e «abbandonare quella retorica democratica che era sta­ta la norma di tutti i governi » i qua­li avevano potuto «governare se­condo la volontà del Parlamento diretto generalmente da una mi­noranza più audace e battagliera di una maggioranza sempre pron­ta a cedere dinanzi a frasi altiso­nanti di democrazia, libertà, so­cialismo ». Era parso che il fasci­smo volesse «esser rispettoso del­le varie libertà individuali purché non se ne abusasse con danno della collettività» e un tale «atteg­giamento piaceva in Italia dove si era fatta una confusione fra dema­gogia parlamentare e parlamen­tarismo e si aveva finito per dete­stare il Parlamento». Il primo di­scorso di Mussolini alla Camera era stato «più che duro volgare e insolente» ed era stato «accolto con rassegnazione dalla Camera perché la Camera aveva perduto ogni senso di dignità»: e di questa situazione Mussolini aveva profit­tato per continuare a insolentirla sbagliando perché «se avesse cer­cato di rialzarne il morale anziché toglierle prestigio avrebbe potuto avere dal Parlamento utile colla­borazione. Come pareva deside­rasse nei primi mesi del suo Go­verno ». Risultato positivo era sta­to il Concordato, possibile perché il governo fascista era «indipen­dente dalla Massoneria». Sconsolate, poi, anche le consi­derazio­ni di Salvago Raggi sui pri­mi governi postfascisti. Ai ministe­ri guidati da Badoglio erano suc­ceduti quelli di Bonomi e poi quel­lo di Parri. Come si legge in un amaro scritto dal titolo Regime di libertà , del 21 agosto 1945, osser­vava che nessuno fra quanti ap­plaudivano al nuovo governo, co­me avevano fatto per quelli di Mussolini, rifletteva sul fatto che basi necessarie per un autentico regime di libertà avrebbero dovu­to essere «la rigida osservanza del­la legalità, il rifuggire da ogni vio­lenza, l’eguaglianza di ogni citta­dino di fronte alla legge». E si do­mandava retoricamente: «Chi si ricorda in Italia che “a quei tem­pi”, prima del fascismo,c’era una massima che si riteneva fosse la base d’ogni vivere civile, e che il fascismo ha cancellato: “Tutti so­no uguali dinanzi alla legge”?». Una massima che esprimeva il senso più profondo di quella Ita­lia liberale della quale Salvago Raggi aveva visto nascita, afferma­zione, caduta. E della quale le sue memorie offrono un quadro.