Sara Faillaci, Vanity Fair 25/5/2011, 25 maggio 2011
INTERVISTA AD ALESSANDRO SALLUSTI
Alessandro Sallusti non sta bene. E la delusione per Letizia Moratti non c’entra. Lunedì 16 maggio, mentre erano in corso gli scrutini del primo turno delle Comunali di Milano, è andato a farsi una Tac al cuore: era da un po’ che non si sentiva in forma. Solo che l’esame ha rivelato problemi cardiaci. I medici l’hanno trattenuto in clinica e sottoposto a un primo intervento d’urgenza. «Erano stupiti che non fossi morto, avevo due arterie completamente ostruite», mi racconta quando lo incontro, giovedì 19, appena dimesso. «Mi hanno detto che mi ha salvato solo il fatto di avere sempre praticato sport. Mercoledì prossimo (il 25, ndr) mi metteranno tre by-pass».
Gli chiedo se vuole rimandare l’intervista. Risponde di no. Più che spaventato, è incredulo. «Ho 54 anni, non posso pensare che il mio corpo mi stia già mollando». Certo, Sallusti fuma, non segue una dieta, lavora fino alle dieci di sera. Soprattutto si arrabbia e, da quando è rimasto solo alla guida del Giornale (Vittorio Feltri nell’autunno scorso è tornato a Libero), è toccato a lui condurre, a favore di Berlusconi, una campagna feroce. Risse televisive comprese. Anche per questo fa un certo effetto trovarselo davanti, oggi, più fragile, più umano.
La Moratti non è uscita bene dal primo turno. C’è chi dà la colpa proprio ai toni aggressivi che avete introdotto nella campagna.
«I toni non c’entrano. Nessuno ha il coraggio di rinfacciare alla Moratti la disfatta, eppure tutti nel partito sapevano che partiva dal 40%: guadagnando un punto e mezzo le è già andata di culo. Nessuno osa dire che ha sbagliato Berlusconi a dare ai giudici dei brigatisti o a fare i comizi sotto Palazzo di Giustizia. Allora dicono che è colpa del Giornale, dei falchi, della Santanchè. Rispondo che sono ipocriti: se critichi il Giornale, che sostiene le posizioni di Berlusconi, critichi il capo del partito».
Qual era il problema della Moratti?
«Sicuramente il candidato era debole. Negli ultimi sei mesi non ho incontrato una persona di centrodestra disposta a votarla».
Perché, secondo lei?
«Ha visioni, penso all’urbanistica e all’Expo soprattutto, che la gente non capisce. Troppi cantieri non finiti, troppe cose fatte solo per le minoranze: le piste ciclabili, per esempio».
Nessuno nel partito si era accorto della sua debolezza?
«Certo che sì, e si è pensato alle alternative: Confalonieri era forse la più forte. Ma a Milano non si può far fuori un sindaco che si chiama Moratti».
Sta dicendo che il Pdl è andato consapevole verso la batosta?
«No, ma siccome il partito si è abituato ad avere uno con la criptonite che risolve tutte le situazioni, c’è stata l’incoscienza di dire: “Tanto ci pensa Berlusconi”».
Stavolta non ha funzionato.
«È evidente che le vicende dell’ultimo anno hanno lasciato il segno, soprattutto nell’elettorato femminile».
Lei del Rubygate che cosa pensa?
«L’idea che mi sono fatto io, leggendo le carte e conoscendo abbastanza bene il premier, è che abbia voluto ricreare in quelle serate l’atmosfera dei night anni Cinquanta, quelli dove lui stesso da giovane faceva il cantante da piano-bar: lo spettacolino sexy, le sciantose che agitavano il seno davanti al cumenda, e quello che magari metteva le diecimila lire nel reggiseno. Secondo me ad Arcore organizzava quella roba lì. Non risultano agli atti costrizioni, e nemmeno orge. Se poi andava a letto ogni sera con una diversa, beato lui. Ma sono fatti suoi».
Non proprio, se una è minorenne.
«Quando si parla di minorenni uno si immagina delle bambine, ma l’ha vista Ruby? Se non ti porta la carta d’identità, non pensi certo che abbia meno di diciotto anni. Non nego che esista un problema legale, ma la legge dovrebbe richiedere una consapevolezza in chi compie un reato del genere».
Ruby l’ha conosciuta?
«Mai. Conosco solo la Minetti».
Di lei che cosa pensa?
«Inquietante. Adesso sappiamo perché è andata a occupare quel posto. Non è un bell’esempio».
Quindi a volte anche lei critica Berlusconi.
«Se non lo critico quasi mai non è perché penso che non abbia difetti, ma perché lo reputo un talento che alimenta la sua genialità anche con i vizi, come Maradona o Michael Jackson. Fondamentalmente sono dei pazzi».
Non pensa che un politico dovrebbe avere uno stile di vita più sobrio? Soprattutto se, come Berlusconi, si erge a guardiano della famiglia tradizionale?
«Berlusconi si è impegnato a fare una politica a sostegno delle famiglie, non a salvare la sua, di famiglia, o a non scopare».
Da direttore del quotidiano di famiglia, come vive il conflitto d’interessi di Berlusconi?
«Ho vissuto un conflitto d’interessi ben superiore durante i miei sei anni come caporedattore centrale al Corriere. Il potere che hanno sul Paese i suoi azionisti era ed è superiore a quello di Berlusconi che, a differenza loro, non controlla le leve finanziarie. Nessun giornalista economico ha mai scritto che le banche ci stavano rifilando delle patacche: vuole che non sapessero? E abbiamo scoperto a cose fatte, ma solo perché gli eredi hanno litigato, che gli Agnelli avevano portato all’estero quantità industriali di denaro. Si sapeva che l’Avvocato frequentava belle donne ma, guarda caso, non è mai uscita una foto né una riga. La Fiat è sempre stata intoccabile. Se il conflitto d’interessi non ci deve essere, non ci deve essere per nessuno».
Ma Agnelli non era in politica, e la concentrazione di potere mediatico che ha in mano Berlusconi è unica al mondo.
«Premesso che il mio editore oggi è suo fratello, le assicuro che, tra gli editori con cui ho lavorato, Berlusconi è quello che mi ha dato più libertà».
Lei è cresciuto in una famiglia fascista: suo nonno Biagio era un tenente colonnello della Repubblica di Salò, poi giustiziato per aver mandato a morte un partigiano.
«In casa mia non si è mai pronunciata la parola fascismo: ho scoperto la storia di mio nonno su un libro di terza media. In omaggio a lui e a mio padre, che fu deportato in Africa, votai alle mie prime elezioni Msi. Dopo ho votato liberale, una volta Dc per sventare il sorpasso dei comunisti, e la Lega l’anno in cui è nata. Da allora, sempre Forza Italia. Ma non ho mai avuto tessere di partito».
Nel 1986 ha lavorato per un anno al Giornale di Montanelli. Che ricordo ha di lui?
«Come uno che amava molto le donne. Una sera in cui si era fermato con noi giovani a chiacchierare disse una frase meravigliosa: “Beati voi, perché il mio problema non è che non mi tira più, ma che non so quando mi tira”. Da sei mesi sono seduto indegnamente nel suo ufficio: se ci penso, sapendo da dove sono partito, non posso che essere soddisfatto».
Travaglio e Belpietro hanno discusso su queste pagine del perché Montanelli ruppe con Berlusconi e lasciò il Giornale. Lei che ne pensa?
«La logica di Berlusconi era molto semplice: eri morto, ho ripianato tutti i tuoi debiti senza chiederti niente, da dieci anni tiro fuori una barca di soldi per permettere a te di fare Montanelli e ai tuoi ragazzi di campare. Adesso che mi metto in politica ti dico che ho bisogno io e tu non vuoi aiutarmi? Berlusconi non capisce l’irriconoscenza».
Ma un giornalista tiene alla propria in¬di¬pendenza.
«Chiunque prenda uno stipendio dipende da quello che glielo paga. Lo stesso Mentana, uno dei migliori sulla piazza, entrerebbe in un’inchiesta con la consueta spregiudicatezza se riguardasse il suo editore? La liberta è di chi paga. Ho lavorato con Mieli, De Bortoli, Anselmi: fare buon giornalismo significa raggiungere il migliore dei compromessi possibili. Se non vuoi padroni devi farti un giornale tuo, come Il Fatto Quotidiano, ma neanche in quel caso è garantita l’imparzialità dell’informazione, perché anche un direttore è un padrone, ha le sue idee, i suoi amici, le persone di cui vendicarsi».
Non soffre mai il fatto di dover fare ogni giorno un giornale pro Berlusconi?
«No, perché io non lo faccio così in quanto pagato da Berlusconi. È lui, piuttosto, che mi paga perché la penso come lui. Dopodiché mi prendo le mie piccole libertà: di recente ho accusato Tremonti di voler aizzare la Lega contro il Pdl. E so che Berlusconi era davvero incazzato».
Si immaginava, anni addietro, che sarebbe diventato direttore?
«Ci ho pensato solo quando sono diventato giornalista professionista in un piccolo giornale di Como, l’Ordine. Avevo 21 anni e quella che poi diventò la mia prima moglie, nel darmi un regalo, mi disse che un giorno l’avrei messo sulla scrivania da direttore del Corriere. Ho sognato per un po’ questa cosa, soprattutto per far contenta lei che aveva creduto in me».
Un romantico.
«Lo sono. Nonostante mi sia sposato e separato due volte (con un figlio 23enne dalla prima moglie, ndr), ho sempre sognato la famiglia da Mulino Bianco. Ho anche trovato il posto, una casetta con il giardino in riva al lago: manca solo la donna da portarci».
Non potrebbe essere Daniela Santanchè? Vi hanno fotografati mano nella mano.
«Daniela è per me una persona importante. Ieri con me in ospedale c’erano lei e Feltri».
Quindi è vero che state insieme?
«Non siamo fidanzati, se è quello che vuole sapere. Ma siamo sicuramente più che amici».
Come è andata?
«Come politico, la conoscevo da tanto. Cinque anni fa, poi, è diventata la concessionaria di pubblicità di Libero, dove allora lavoravo».
E siete diventati intimi.
«Ma prima i nostri rapporti erano stati burrascosi. Daniela mi mandò letteralmente a cagare, perché lei è così, dopo che feci su Libero il resoconto di una cena privata a casa sua, all’epoca di Prodi. Quella sera Berlusconi, deciso a far cadere il governo, pronunciò la famosa frase che divenne un titolo di Repubblica: “Manca il killer, ma adesso lo trovo” ».
Feltri vi chiama «Olindo e Rosa»: anche nella vita siete così aggressivi?
«Io sarei l’opposto. Ma da quando ho litigato in Tv con D’Alema, ci si aspetta da me che faccia sempre incazzare tutti: “Giù duro, mi raccomando, che dobbiamo fare gli ascolti”. C’è un ruolo che devi interpretare. Mi hanno messo a giocare mezzala destra quando in realtà sarei centrocampista».
E la Santanchè, nel privato, come è?
«Molto dolce. Passa le serate a lavorare a maglia per il figlio».
Mi prende in giro?
«Giuro. Odia uscire e andare alle feste. Ma anche lei ha un ruolo».
Diceva che in ospedale è venuto a trovarla anche Feltri. Come sono i vostri rapporti oggi?
«Nei momenti importanti ci siamo sempre stati l’uno per l’altro».
Come ha vissuto la sua partenza dal Gior¬nale?
«Molto male. Il suo addio ci ha danneggiati, abbiamo perso parecchie copie. Ma arriva il momento in cui devi toglierti la coperta di Linus e nuotare in mare aperto. Di questo, per certi versi, gli sono grato. Capisco meno l’operazione Libero con Belpietro: una squadra non vince con due fuoriclasse in attacco».
Perché Feltri è andato via?
«Come nei divorzi, non c’è mai una causa sola. Per anni, quando torni a casa e trovi tua moglie con i bigodini, non ci fai caso. Però, quando ti separi, non potendo spiegare gli stati d’animo ci appiccichi sopra dei fatti e allora dici: cazzo, aveva sempre i bigodini in testa. Feltri ha detto: “Sallusti è uno stronzo”. Ma il motivo non è quello. Era un periodo in cui stava male, era confuso. Il fatto di non poter scrivere da novembre a marzo, per la sospensione imposta dall’Ordine (conseguenza anche del caso Boffo, ndr), l’ha fatto uscire di testa».
Non sarà invece che, fiutando il declino del Pdl, ha voluto prendere le distanze?
«Vittorio non è così cinico. È tipico suo far saltare il banco quando ha un momento di stanchezza. È per natura incostante, sul lavoro come nel privato: si innamora di persone e progetti, ma riesce a viverne solo la fase adrenalinica: quando arriva la quiete non regge e tende a distruggere tutto quello che ha costruito. Ha distrutto l’Indipendente che aveva fondato, è passato da Libero al Giornale per distruggere Libero e, quando eravamo sul punto di riuscirci – erano sotto le 60 mila copie –, che cosa ha fatto? È tornato a Libero per distruggere il Giornale. Schizofrenia pura. Roba da psichiatra. Ma, siccome gli devo tantissimo, non lo giudico. Anzi, spero di tornare a lavorare con lui».
In pubblico vi siete scontrati. In privato siete affettuosi?
«No, perché siamo entrambi poco fisici – in tanti anni non ci siamo mai toccati – e anaffettivi: io per via di mia madre, una donna molto fredda».
Che cosa le ha detto Feltri in clinica?
«“Avevo bisogno di vederti perché sto male solo all’idea che tu stia male”. Io gli ho risposto in modo ancora più sintetico, perché Vittorio mi mette in soggezione. È una delle poche persone che mette in soggezione anche Berlusconi. E viceversa. Assistere a un loro incontro, come mi è capitato, è imbarazzante: si cercano un attimo con gli occhi, magari iniziano un discorso, ma dopo appena qualche minuto distolgono lo sguardo perché non reggono. Feltri scambia quella soggezione per antipatia, pensa di stare sui coglioni a Berlusconi, ma non è vero».
È vero però che Berlusconi preferisce circondarsi di gente adorante.
«Avendo studiato la storia, sa che i complotti vengono sempre dalla corte: chi può pugnalarlo alle spalle è Tremonti, l’opposizione al massimo gli spara in faccia. Mettere persone di fiducia nei posti strategici, con la conseguenza di poterle controllare, è una tattica di potere».
Più che al potere, non si dovrebbe pensare al bene dei cittadini?
«I ministri che contano sono quelli con portafoglio, e lì ha messo persone di valore: Maroni, Tremonti, Sacconi. Sulle altre poltrone è indifferente chi si sieda».
A proposito di complotti interni al Pdl, ha scritto che potrebbero aver contato nella sconfitta della Moratti.
«A guardare bene le facce, dopo l’annuncio della sconfitta, non erano tutte dispiaciute. Formigoni era addirittura felice. Né lui né l’area ciellina si sono spesi molto in questa campagna».
Lei stesso è legato a Comunione e Liberazione: è grazie a loro se oggi fa il gior¬nalista.
«Vero. Entrai all’Ordine grazie a un prete mio amico. E, quando chiuse, fui ricollocato al Sabato. Resto cattolico ma non praticante».
Vicina a Formigoni è anche la Sec, l’agenzia che ha curato la criticatissima strategia di comunicazione della Moratti. Sono stati loro a consigliarle infelicemente di tirare fuori, durante il confronto televisivo a Sky, la vecchia storia della condanna di Pisapia per il furto di un’auto poi usata per un sequestro?
«La Sec nega. La Moratti comunque ha detto una cosa incompleta, non falsa: Pisapia è stato davvero processato, condannato dalla Corte d’Assise e poi amnistiato. Ma siccome è suonato il gong di fine della trasmissione, non c’è stato tempo di aggiungere che poi lui ha fatto appello e l’ha vinto. La Moratti ha sbagliato i tempi e, visto che è incapace di fare mignottate, l’uscita le è venuta male. Il nocciolo del discorso non era la condanna, ma il fatto che Pisapia frequentasse terroristi».
Non sarà stato lei a imbeccare la Moratti?
«Chi mi accusa non conosce i miei rapporti con il sindaco uscente, e soprattutto non conosce lei: non ascolterebbe mai un mio consiglio. Prima del gennaio scorso, quando mi invitò per un caffè a Palazzo Marino, non la conoscevo neppure. Qualche giorno dopo mi telefona: “Guarda, direttore, forse possiamo darci del tu”. Lì ho capito che era davvero in difficoltà, perché se una così scende dal piedistallo e si abbassa a dare del tu a uno che le sta evidentemente sui coglioni... Malgrado tutto, penso davvero che sia molto meglio lei di un pericoloso estremista come Pisapia».
Pericoloso?
«Sicuramente lo è stato. Poi uno magari cambia, rinnega il passato come ha fatto Fini, ma non lo puoi fare gratis, devi ritirarti dalla politica».
La Moratti ha qualche speranza di vincere il ballottaggio?
«Secondo me, no».
Se il Pdl perde Milano, sarà la fine del berlusconismo?
«Lo dicono, ma io non ci credo: fino a quando sarà lo stesso Berlusconi a vedere la fine della sua era, quell’era non finirà. Questa è la differenza tra un uomo normale e uno eccezionale».
Quando la fine arriverà, che cosa suc¬ce¬derà?
«La guerra civile nella politica italiana».
E, se la barca affonda, Sallusti che cosa fa?
«Cambiare casacca non mi appartiene. E poi, trovo molto eroico affondare. Ogni tanto uno sogna di ritirarsi nella casetta del Mulino Bianco. In buona compagnia».