Marco Filoni, Saturno-il Fatto Quotidiano 27/5/2011, 27 maggio 2011
WEIMAR A WALL STREET
Non più di qualche mese fa, nel pieno della crisi del debito sovrano che sconvolge i mercati mondiali. In questo clima funesto, i colletti bianchi della finanza si scambiano e discutono un libro scritto nel-l’ormai lontano 1975. Più di recente il primo ministro David Cameron, durante un’intervista, consiglia al popolo inglese quello stesso libro per capire l’economia e la sua crisi.
Quel libro così attuale è Quando la moneta muore dello storico Adam Fergusson, che arriva finalmente nelle librerie italiane (dal 31 maggio per Neri Pozza, con un’introduzione di Loretta Napoleoni). Per comprendere il perché di tanto interesse, basterà dire di cosa tratta: il volume è la ricostruzione della condizione finanziaria e monetaria tedesca durante la Repubblica di Weimar.
Anzi, più che della condizione, del suo disfacimento: l’agonia del marco, la conseguente iperinflazione e le sue tappe principali, le drammatiche ripercussioni sulla vita sociale e reale dei cittadini tedeschi, fino al più sconcertante esito politico nazista – la morte del marco tedesco fu strumentale nell’ascesa al potere di Hitler.
Nel 1914 per acquistare una sterlina servivano 20 marchi. Dopo soli nove anni, nel 1923, ce ne volevano 320 miliardi. Mentre per un dollaro erano sufficienti appena 4 miliardi. A questo punto si era arrivati per molte ragioni, fra le quali l’illusione di risolvere la crisi economica stampando cartamoneta a volontà – come ricorda Loretta Napoleoni nella sua introduzione, in un’economia sana la crescita di denaro (ovvero la quantità di moneta immessa nel sistema) deve esser pari alla crescita economica. Ma ormai il danno era stato fatto. La disoccupazione alle stelle. Il declino iniziato. Che succede in una situazione del genere? È il pregio maggiore del libro: la capacità di raccontare le ripercussioni di tale crisi sulla vita di tutti i giorni. E di ogni cittadino tedesco, perché una simile svalutazione della moneta non conosce classi sociali – anzi, al contrario di quanto avveniva normalmente, la situazione era peggiore nelle città di quanto non fosse nelle campagne. Questo perché quando una moneta si ritrova a esser, in pratica, senza alcun valore, allora si ritorna agli albori dell’economia e del commercio. Ovvero il baratto. Fergusson racconta con molta efficacia e descrive sino ai dettagli la condizione tragica in cui vennero a trovarsi i tedeschi in quegli anni. Un pianoforte poteva bastare a sfamare una famiglia per qualche settimana, così come qualche abito di alta sartoria poteva esser scambiato per una pagnotta di pane. Ma anche qualche quadro o gioiello di valore veniva permutato per una manciata di uova. L’inflazione aveva condotto l’economia all’arbitrio del bisogno. Così dal panettiere un paio di panini si compravano al mattino per 20 marchi, mentre il pomeriggio costavano 25: nessuno sapeva il perché, né il fornaio tanto meno gli acquirenti. E allora via alla caccia al responsabile: colpa del dollaro; no, colpa dei partiti, della borsa e, perché no, colpa degli ebrei. Fergusson mostra magistralmente l’imbarbarimento e l’erosione delle coscienze, perché il degrado affligge la moneta non meno di quanto non affligga la gente. Di fronte all’iperinflazione si aprono le porte all’orrore, allo sfilacciamento dei rapporti sociali, agli istinti peggiori della gente che, ridotta in miseria, non capisce chi è il nemico da combattere e cerca un capro espiatorio. Quello di Fergusson è un libro da leggere, importante, che oggi ci si presenta più che mai come un monito e un avvertimento rispetto al nostro presente. Che, scorti i parallelismi, appare sempre più inquietante.