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 2011  maggio 27 Venerdì calendario

E FLAIANO DISSE: A QUELLI NON TIRA! - CHE LA LETTERATURA

rappresenti la vita degli omosessuali è cosa che ci si aspetta, comunque intenda rappresentarla: alla Bassani o alla Proust, alla Oscar Wilde o alla E. M. Forster, alla Pasolini o alla Kavafis, alla Penna o alla Edmund White, esaltandola o mostrandone le miserie. La letteratura è fatta per indagare gli aspetti meno ovvi dell’esperienza umana, e l’omosessualità è uno di questi, tanto quanto i segreti dei matrimoni, le guerre e le persecuzioni razziali. Ecco perché l’omofobia, che nella vita di tutti i giorni è frutto dell’ignoranza e dell’incomprensione, si direbbe implausibile tra gli scrittori, cioè tra coloro che indagano le cose. D’accordo non essere interessati a parlare di quegli individui che Dante metteva nel quindicesimo dell’Inferno; d’accordo preferire discorsi che riguardano situazioni meno minoritarie (ma c’è qualcosa che in letteratura, se letteratura è, non sia minoritario? Chi è, infatti, più minoritario di personaggi intramontabili come Ulisse o don Quijote o Madame Bovary? Non starà, dunque, nel minoritario l’universale che tutti pretendono dai libri?). Però, insultare gli omosessuali, maledirli, negarli, come si vede fare anche da certi rispettati scrittori, questo è proprio strano. Eppure… Evidentemente la letteratura è una cosa, gli scrittori sono un’altra: un po’ come la legge è una cosa e il cittadino un’altra. Ogni cittadino ha ragione, se ignora la legge; ma la legge resta.
Céline, quel gran maestro del romanzo, negli omosessuali trovava il peggio del mondo. Li ha confusi con gli ebrei, o ha confuso gli ebrei con loro: rottinculo che volevano metterlo in culo a tutti gli altri. Secondo lui André Gide, esimio esponente del partito contrario, nella vita e nella scrittura, avrebbe insegnato agli adolescenti a dire alle loro mamme quanto fosse bello farsi fottere nel didietro e alle mamme a considerare la cosa del tutto normale. L’orrore dell’omo, in Céline, è pervasivo. Chi si porta dietro uno spazzolino da denti, come leggiamo nel Viaggio al termine della notte, si merita d’essere deriso come “omosessuale” (la parola allora – siamo nei primi anni Trenta – ancora scioccava).
Un altro maestro delle lettere francesi, Jean-Paul Sartre, ha addirittura offerto fondamenti teorici all’omofobia. Gli omosessuali, come i codardi, sarebbero una dimostrazione di quanto possa la cattiva fede: sono così e non posso essere altrimenti, e si sforzano di provare che i loro errori sono il loro destino. E dove va a finire, secondo il romanziere filosofo, la capacità di determinare la propria vita? (Come se il “dovere di scegliere” riguardasse solo l’oggetto del desiderio, la donna aut l’uomo – se pure esistono – e non la capacità di vivere il desiderio in un modo anziché in un altro: perché la questione, poi, è tutta lì – non in chi o che cosa vogliamo, ma come lo vogliamo e decidiamo di volerlo).
Memorabili, in Italia, le battute omofobe di Ennio Flaiano: «L’omosessualità per la classe povera non è un vizio ma un modo per accedere alle classi superiori»; o «L’impotenza cerca salvezza nell’omosessualità»: eh già, l’omosessualità è il vizietto dei viziati o di quelli a cui non tira. Che delusione!
Ci sono poi autori che la loro omofobia la tengono al guinzaglio, soprattutto di questi tempi – visto che ormai esiste un nome per inchiodarli – ma che prima o poi se ne lasciano strattonare e cadono. Penso a un Kundera, l’amato (non da chi scrive, in realtà) autore dell’Insostenibile leggerezza dell’essere, il quale in un saggio di pochi anni fa ha affermato di aver perso simpatia per la Albertine di Proust il giorno che scoprì che era stata ispirata da un maschio. E allora, signor Kundera? Felici quegli scrittori che non hanno paura di niente, che amano le donne e sanno che amare ha infinite ragioni e infinite espressioni! Imparate, omofobi delle lettere, da Bassani, da Soldati, da Bolaño, da Vargas Llosa…