Carlo A. Biscotto, il Fatto Quotidiano 27/5/2011, 27 maggio 2011
IL MALICK CHE NON C’È
Il misantropo del cinema mondiale ha vinto la Palma d’Oro e, come da copione, non è andato a Cannes a ritirarla alimentando ulteriormente la leggenda del genio solitario, appartato, incontaminato, scontroso, misterioso. Il suo volontario isolamento e i lunghi periodi di silenzio creativo hanno fatto di lui una figura “quasi divina” negli ambienti del cinema e hanno fatto sorgere ipotesi, supposizioni, congetture che vanno dalla timidezza alla superbia, dalla nevrosi al fanatismo religioso, dalla supponenza alla furbizia, dall’innocenza a una diabolica capacità di costruire un mito intorno alla sua figura di regista-filosofo. Insomma, si potrebbe dire morettianamente, “mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo affatto?”. Terrence Malick ha deciso da un pezzo di non venire affatto. Per farsi notare di più? Chi può dirlo?
È DA MOLTI considerato il J.D. Salinger del cinema. Ma a questo proposito è d’obbligo qualche precisazione. La scrittura, diversamente dal cinema, è per vocazione una attività solitaria e come tale la intendeva Salinger al punto da dire al New York Times nel 1974, in una delle sue rarissime interviste: “Non pubblicare mi dà una meravigliosa tranquillità. Mi piace scrivere. Amo scrivere. Ma solo per me e per il mio personale piacere”. E negli ultimi anni della sua lunga vita confidò a un editore: “Ho avuto la fortuna di scrivere un capolavoro al mio esordio. Ho sempre saputo che non avrei mai potuto scriverne un altro”. Malick, invece, dal suo romitaggio esce periodicamente per consegnarci l’ennesimo capolavoro. Già perché ormai Terry, come lo chiamano a Hollywood, è condannato a girare solo capolavori. Si fa pregare, ma finisce sempre per cedere potendo anche contare su una infinita schiera di famosissimi attori-ammiratori-adoratori, tra cui Brad Pitt, Sean Penn, Nick Nolte, Adrien Brody, che fanno la fila per lavorare con cachet da minimo sindacale. Nel mondo del cinema, chi riesce ad avvicinarlo entra nel ristrettissimo club di quanti “lo hanno conosciuto” e, magari, “hanno raccolto qualche sua confidenza”. Nel 1998 Malick, in qualità di produttore, chiese al documentarista britannico Leslie Woodhead di realizzare Endurance sulla vittoria di Gebreselassie nei 10.000 metri alle Olimpiadi di Atlanta del 1996. “Abbiamo collaborato per oltre un anno”, ricorda Woodhead con più di una punta di orgoglio. “In quel periodo credo di essere stato l’unico in America ad avere il suo numero di telefono”.
DI LUI NON SI conosce con certezza nemmeno il luogo di nascita. È nato nel settentrionale e industriale Illinois, come sostengono alcuni, o a Waco nel Texas come riportano la maggior parte delle scarne biografie? Rarissime sono le foto. Quella più spesso pubblicata negli ultimi tempi lo ritrae con la barba incolta e un cappellaccio da cowboy che lo fa somigliare al cattivo di uno spaghetti-western. Dal 1973 non concede interviste, anche se alla Festa del Cinema di Roma del 2007, ha accettato di parlare di cinema italiano dinanzi a una platea selezionata e in assenza di fotografi. Quando lavora la sua privacy è puntigliosamente e quasi paranoicamente protetta da clausole negoziate con la produzione: niente foto, niente conferenze stampa, niente giri promozionali, niente fotografi o giornalisti sul set, niente dichiarazioni della troupe. Perché lui “parla solo con le sue opere”, come ha detto qualche giorno fa Brad Pitt, interprete del suo ultimo film The Tree of Life. Molti – e non solo per lo stile, per l’ossessiva devozione al suo mestiere e per la “monotematicità” delle sue opere – lo hanno paragonato a Stanley Kubrick che certo non era secondo a nessuno quanto a stranezze. Basterebbe chiedere informazioni alla coppia Kidman-Cruise “scoppiata” durante la lavorazione di Eyes Wide Shut.
Ha esordito alla regia con La rabbia giovane nel 1973 cui ha fatto seguito nel 1978 I giorni del cielo. Dal 1978 al 1998, anno in cui ha girato La sottile linea rossa, è letteralmente scomparso. Pare – ma nulla è certo quando si tratta di Malick – abbia vissuto in volontario esilio a Parigi. A nessuno è dato sapere come trascorse quei venti anni.
Nel 1999 alla notte degli Oscar, quando venne il momento di passare il filmato dei candidati alla statuetta per la regia, nella sequenza a lui dedicata apparve solo la sedia di regia con dietro scritto il suo nome: Terence Malick. Nemmeno il più abile dei pubblicitari avrebbe saputo fare di meglio. Sta di fatto che non ha ancora finito di stupirci, stando alle scarne informazioni che abbiamo sui suoi nuovi progetti. Il nuovo film in lavorazione, “The Burial”, vanta un cast d’eccezione, in cui figurano Ben Affleck, Rachel McAdams, Rachel Weisz, Olga Kurylenko e Javier Bardem.
MALLICK ha fatto sapere che si tratterà di un film ancora più sperimentale di “The Tree Of Life”; e tra i progetti c’è pure un documentario intitolato “The voyage of time” in cui si propone di descrivere il tempo nella sua interezza, dalla nascita dell’universo al suo collasso finale. Promessa o minaccia?