Alberto Orioli, Il Sole 24 Ore 26/5/2011, 26 maggio 2011
LA SFIDA DELLA CRESCITA, LA SFIDA DEL PAESE
Ci sono tre dati che, per casualità, si sono allineati ieri, come accade a volte per i pianeti, dando luogo a una congiunzione tanto straordinaria quanto efficace nel rappresentare la situazione dell’Italia. O, forse meglio, degli italiani.
La conferma dell’Ocse sulla bassa, bassissima crescita, anche futura (1,1% quest’anno e, forse, 1,6% il prossimo); la fotografia delle pensioni, che raggiungono ormai un cittadino su tre, e per la metà sono inferiori a 500 euro; la gelata sui consumi che ormai non sfondano nemmeno più negli ipermercati dove è accesissima la guerra degli sconti.
È il Paese: galleggia, crea poco sviluppo, fatica a investire. Vive di veri "eroi della nicchia"; sconta l’ineluttabile smantellamento, pezzo dopo pezzo, di grandi settori di eccellenza (cos’è se non questo il dramma Fincantieri?); e confida in una economia informale come imbattibile ammortizzatore sociale.
La straordinaria tenuta della società, e di chi la rappresenta in associazione, ha garantito finora la pace sociale e il controllo delle dinamiche retributive, mettendo in sicurezza la politica dei redditi. Non altrettanto si può dire dei sistemi a tariffa e dei non-mercati dei servizi (trasporto locale, nettezza urbana, erogazione carburanti ad esempio) dove le dinamiche sono oltre l’inflazione programmata.
A coesione sociale fa pendant la coesione di bilancio mantenuta dal Governo: gli obiettivi di rientro di deficit e debito sono confermati – con incoraggiamento e con buona pace dei gufi del rating – in tutta Europa e dallo stesso Ocse proprio ieri. Il piombo degli oneri sugli interessi ci schiaccia al suolo e impedisce il volo di politiche pubbliche adeguate (che non sono dirigismo: le fanno tutti i Paesi europei "di mercato"). A maggior ragione ora, in tempi di attese di tassi in rialzo e di inflazione crescente, denunciati anche ieri da Mario Draghi. Per l’Italia il servizio del debito veleggia verso quota 90 miliardi: e piombo si aggiunge al piombo. A maggiore ragione ora che i tagli di spesa hanno intaccato soprattutto quelle in conto capitale, gli investimenti non la cassa.
È anche vero, però, che ci sono anche i "costi del non fare" che – secondo le stime dell’omonimo osservatorio – sono stati di 20 miliardi nel solo biennio 2009-2010 (metà della prossima manovra triennale attesa dall’Italia). Ne consegue che "il fare", cioè investire, sarebbe comunque un rispamio di lungo periodo.
L’Italia è malata di scarsa domanda interna e di bassa produttività; cerca un riposizionamento, anche ideologico, nella parte manuale del lavoro, che è un atto dovuto per l’invidiata abilità dei tecnici italiani nel mondo, ma sarebbe bene si accompagnasse anche alla ricerca di eccellenza nel mercato più redditizio: le idee.
La suddivisione internazionale del lavoro sembra volerci confinare in una nuova abilità artigianale, di qualità, ma a basso valore aggiunto. Mancano oltre 100mila tra tappezzieri, installatori di infissi, cappelai o addetti all’edilizia, solo per citarne alcuni.
E ci sono almeno 500mila giovani che hanno addirittura rinunciato a cercare un lavoro. Forse quello sognato o forse quello che non saprebbero comunque fare. Ci sono ormai due mondi, divisi da una drammatica incomunicabilità operativa.
Per contrastare lo scarrocciamento verso la parte bassa della classifica mondiale dello sviluppo tutti devono potersi mobilitare verso obiettivi comuni e di sistema. Serve qualcuno che li fissi questi obiettivi: qualità nella formazione; selezione dei settori a più alta crescita; diffusione delle tecnologie; adeguamento delle regole al mercato del lavoro globalizzato; creazione di una nuova fisionomia delle infrastrutture, cercando finalmente di unificare gli standard Nord-Sud e di legarle alle grandi direttrici mondiali del traffico delle merci e del progresso.
Eppoi: scelte energetiche bilanciate e coerenti; capacità di visione nel definire le alleanze economiche in un mondo che sta cambiando baricentro.
Temi da governi, da istituzioni; temi da nazione. Berlino, Parigi e Londra si cimentano su questo da tempo.
Ma ci sono anche sfide più micro, interne al sistema unico, irripetibile, tanto fascinoso quanto ancora involuto, dell’economia italiana. Lo sforzo di una maggiore attenzione alla ricerca anche privata e mirata al trasferimento tecnologico e alla creazione-sfruttamento di brevetti; il superamento della galassie pulviscolari delle piccole imprese che finalmente dovrebbero diventare reti e gruppi di media taglia più adatti a fronteggiare il cliente-mondo; l’accettazione che mercato vuol dire sempre concorrenza e che l’essere imprenditori non significa capacità di guidare uomini e mezzi in monopolio o in piste protette; un’apertura a tecniche gestionali più evolute che non siano solo i passaggi di testimone padre-figli. Sfide per chi è già in campo ed è chiamato a crescere: per sè e per il Paese.