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 2011  maggio 25 Mercoledì calendario

LEGGERE IL CORANO COME LA BIBBIA PER LIBERARSI DEI FANATICI DI ALLAH


Un’analisi del Corano fondata sul metodo storico-critico non è mai stata realizzata.Tentata sì, grazie a Abdelwahab Meddeb, autore di Uscire dalla maledizione. L’Islam tra civiltà e barbarie (Cantagalli, pp. 272, euro 22), quarto sforzo letterario di infrangere un tabù che imprigiona il testo sacro ai musulmani. Con i precedenti La malattia dell’Islam, Di fronte all’Islam e Contro-prediche, era iniziato «il ciclo che denuncia il male che corrompe la religione in cui sono nato». Nato e cresciuto, può ben dirlo, in una famiglia tunisina dove suo nonno e suo padre erano professori, rispettivamente, di letture coraniche e di legge islamica. Non è un laicista qualsiasi, di quelli convinti che soltanto la secolarizzazione e il relativismo possano «curare» i musulmani dal fondamentalismo.
Rimane famoso un suo scontro verbale, risalente al 2008, che lo oppose a Tariq Ramadan, ideologo del neo-fondamentalismo: Meddeb propone ai musulmani di incamminarsi su un percorso di laicità che conduca all’abolizione della sharia e del jihad. Spinge i correligionari a confrontarsi con l’idealismo di Hegel e il nichilismo di Nietzsche per introdurli in un rapporto almeno dialettico con la modernità. Lo fa come conduttore radio-televisivo, ma anche da docente di Letteratura comparata europea-islamica all’Università di Parigi X (Nanterre), dove lo scrittore attacca sul piano epistemologico il concetto di immutabilità del Corano come incarnazione della Parola divina incontestata (e incontestabile), eterna, portatrice della verità piena.
Certo Meddeb non è il primo a rivolgere ai dottori musulmani l’invito a riaprire l’ittijihad, cioè l’opera d’interpretazione della scrittura, a «rinnovare e modernizzare radicalmente l’esegesi e l’ermeneutica coraniche». Qualcuno fra gli innovatori che lo hanno preceduto, come il sudanese Mahmud Tahâ, qualche decennio fa sono finiti impiccati per apostasia.
Tuttavia, non si può escludere che una nuova formulazione sul valore della storicizzazione e dell’esegesi dei testi possa attirare l’attenzione delle generazioni che non subiscono più l’influenza dell’ideologia jihadista. Un decennio fa, dopo gli attentati dell’11 settembre, anche fra i giovani musulmani si era affermata la teoria dell’ineluttabile scontro fra le civiltà. Nel post-Bin Laden si potrebbero riaprire i giochi. Alle varie “primavere arabe” che hanno preso il via nei mesi scorsi, non mancano soltanto i leader. A meno che, per pigrizia intellettuale e mancanza di formazione culturale, non intendano scivolare in una versione postmoderna del califfato, le prossime classi dirigenti del mondo islamico dovranno pur dotarsi di qualche strumento per governare.
Il merito di Meddeb consiste nel suggerire almeno una riflessione sulla questione del rapporto tra il potere spirituale e il potere temporale. Va detto, a onore dell’editore Cantagalli, che la ripubblicazione nel 2010 di un testo di Etienne Gilson, Le metamorfosi della città di Dio, potrebbe fungere da supporto ulteriore nel processo di formazione del personale politico nella fase del passaggio a una democrazia che intenda affrancarsi dalla teocrazia islamica. Per risolvere il nodo della distinzione fra le due sfere, anche Meddeb come Gilson comunque utilizza il De Monarchia di Dante Alighieri sebbene accanto alla Muqaddima di Ibn Khaldûn, e alle Regole profane e religiose di Mawardî. Sono la testimonianza di una discriminazione e di una differenziazione già avvenute «tra legge religiosa (propria della persona) e regola politica (che impegna l’altro) nei trattati di governo e di morale scritti in lingua araba in epoca medievale». Quanto si riveleranno utili, come auspica l’autore, «per disfarci definitivamente del dogma che vuole vedere nella consustanzialità tra politica e religione la specificità dell’Islam, nell’eternità, per i secoli dei secoli», lo si vedrà nello sviluppo degli eventi storici a venire.
Se no, verranno in aiuto altre risorse, che Meddeb riconosce, sebbene senza condividerne interamente il contenuto, nel discorso tenuto nel settembre 2006 da Papa Benedetto XVI a Ratisbona. Finora, i musulmani non hanno saputo approfittarne per «neutralizzare la lettura violenta, fanatica, esclusivista, contestualizzandola e dimostrando che non corrisponde più alle questioni del nostro tempo e alla mutazione del pensiero che oggi conosce l’umanità».
Ma è sorta una scuola teologica che fa ben sperare e si è diffusa all’Università al-Azhar del Cairo così come in Turchia, con Ömer Özsoy e Mehmet Paçaci. E c’è il richiamo a «un’etica della sottigliezza» che evoca un «approccio aperto e liberale all’Islam». E infine alcuni poeti medioevali, come il persiano Hâfez Chîrâzî, a consigliare: «Versa il vino, poiché sceicco, predicatore del Corano, mufti e capo della polizia, / se guardi bene, sono tutti dei mistificatori». Benché non sia affatto garantito che, una volta abbattuti i tiranni, si conquisti automaticamente la libertà.

Andrea Morigi