Alberto Negri, Il Sole 24 Ore 24/5/2011, 24 maggio 2011
GIALLO E VELENI SUL MULLAH OMAR
Prima o poi i grandi latitanti commettono un errore o vengono traditi. Potrebbe accadere anche per il Mullah Omar ma nel giallo sulla sua fine vera o presunta uno degli aspetti più significativi, per il momento, è rappresentato dalle accuse, neppure troppo velate, dei servizi afghani al Pakistan, secondo i quali il fondatore dei talebani sarebbe scomparso da giorni «dal suo rifugio di Quetta», capitale del Balucistan.
La sorte del Mullah Omar è assai incerta ma Kabul, dopo l’uccisione di Bin Laden ad Abbottabad, torna ad attaccare l’Isi, i servizi militari pakistani, ritenuti dal Governo Karzai - ma non solo - pericolosi agenti della destabilizzazione, protettori di talebani e al qaidisti. Stritolata da una decennale politica di ambiguità nei confronti dell’estremismo islamico, Islamabad è mandante e allo stesso tempo vittima del terrorismo, come dimostra ieri l’incredibile attacco dei talebani pakistani alla base navale di Karachi, un’operazione che proietta un’ombra inquietante sulla capacità di questo Paese di custodire i suoi arsenali, compresi quelli atomici.
Era prevedibile che dopo la fine di Bin Laden si ricominciasse a parlare del Mullah Omar: fino al settembre del 2001 la sorte dei due era strettamente legata. Gli americani attaccarono l’Afghanistan perché il capo dell’Emirato si rifiutò di consegnarlo. Voleva le prove che fosse davvero responsabile degli attacchi dell’11 settembre. Non credeva che gli Stati Uniti avrebbero mosso una guerra contro di lui, come racconta nelle sue memorie Abdullah Zaeef, l’ex ambasciatore talebano in Pakistan.
Il 7 ottobre del 2001 Zaeef incontrò Omar a Kandahar avvertendolo che gli americani stavano per iniziare i bombardamenti: «Non lo faranno, non ci sono più del 10% di possibilità che lo facciano», affermò il Mullah. Squillò il telefono e andò a rispondere Zaeef: il ministero della Difesa informava che i primi missili avevano colpito Kabul.
Il Mullah Omar, un omone alto quasi due metri, che aveva perso l’occhio destro in un combattimento contro i sovietici, figlio di un bracciante della provincia di Kandahar, è sempre stato un ottimo guerrigliero ma un pessimo stratega. Dopo la caduta del regime ha continuato a essere il capo spirituale del movimento talebano e fino a un anno fa la sua influenza era ancora evidente nei comunicati della guerriglia. Un duro colpo per lui è stata nel febbraio del 2010 la cattura da parte della Cia e dei servizi pakistani del suo vice, il Mullah Ghani Baradar impegnato in negoziati con l’Onu. Negli ultimi tempi sembra che la rete di Jalaluddin Haqqani abbia preso il sopravvento, sostenuto anche dall’ascesa dei talebani del Waziristan, regione pakistana di confine che costituisce una retrovia formidabile.
Ogni tanto viene dato per morto, una figura inafferrabile e poco decifrabile, rimasta comunque in silenzio dopo l’uccisione di Bin Laden. A Kabul il suo vice ministro degli Esteri, Wahid Mozdah, mi mostrò qualche tempo fa un filmato dove appariva circondato da giovani guerriglieri, adolescenti imberbi e con le unghie laccate. Sulle spalle portava ancora il leggendario mantello nero di Maometto di cui si era impadronito conquistando la moschea di Kandahar.