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 2011  maggio 22 Domenica calendario

LA VITA DI JOYCE: UN’ODISSEA DA UNO SPECIALISTA ALL’ALTRO

Un’odissea clinica. Così è stata definita la vita di James Joyce, il grande romanziere irlandese che vanta la produzione del testo ritenuto da molti il più illeggibile della storia, il poderoso «Ulisse» . Un titolo forse scelto non a caso, visto che anche l’autore è stato protagonista di un triste peregrinare durante tutto l’arco della sua esistenza. Non però fra le strade di Dublino, come il protagonista dell’Ulisse, Leopold Bloom, né tantomeno sugli epici mari della Grecia antica, come l’Odisseo-Ulisse. Joyce vagò per tutta la vita da un medico all’altro, nella speranza di trovare sollievo ai molti guai di salute che lo afflissero: fu in cura da ben 35 diversi dottori, ma è stato il paziente che nessuno di loro avrebbe mai voluto avere. Perché pure nella vita vera, e non solo quando scriveva, Joyce era un tipo difficile: vita sregolata, cattive abitudini, la pervicace tendenza a non dare ascolto ai consigli e l’assoluta indifferenza per le raccomandazioni mediche.
Luca Ventura, anatomopatologo dell’Ospedale San Salvatore de L’Aquila, ha scritto un saggio sulla storia clinica di Joyce e osserva: «Molte delle sue malattie erano difficili da curare ai primi del ’ 900, ma è anche vero che parecchie complicazioni avrebbe potuto evitarsele se avesse ascoltato di più i consigli dei medici» . Come in ogni vita travagliata che si rispetti, le avvisaglie di guai si potevano già cogliere quando James era giovanissimo. I primi occhiali da vista da miope li inforcò infatti a 6 anni, nel 1888, e da allora iniziò la lotta contro problemi oculari man mano più pesanti; a 14 anni, poi, spese in un bordello i suoi primi guadagni, ricavato di premi scolastici, assecondando un’inclinazione per le prostitute che lo accompagnò tutta la vita procurandogli più di una malattia venerea.
Furono proprio i disturbi alla vista e le infezioni, che gli causarono una specie di infiammazione generalizzata permanente, i due nemici contro cui Joyce lottò a lungo. I primi sintomi si fecero sentire ad appena 20 anni: mentre Joyce viveva da bohémien a Parigi, fra sbornie e donne di malaffare, accusò stanchezza e dolori probabilmente dovuti a una malattia venerea.
Ma la vera odissea cominciò nel 1905, quando la vista ebbe un calo repentino: a maggio Joyce divenne temporaneamente cieco, gli occhi gli facevano male, a tutto questo si aggiunsero dolori di stomaco e alla schiena che lo lasciarono prostrato per mesi. I medici diagnosticarono una febbre reumatica e secondo Ventura «l’ipotesi più probabile è che i ripetuti episodi infiammatori che hanno costellato la vita dello scrittore siano da attribuire a un’artrite reattiva o a una spondilite anchilosante. Malattie con una componente genetica e autoimmune che possono essere innescate da un agente esterno e comparire ad esempio proprio dopo una malattia venerea» . Queste patologie, infatti, possono avere conseguenze oculari analoghe ai disturbi di Joyce che, nel 1917, esplosero con violenza. I dolori agli occhi si fecero insopportabili a causa di un’infiammazione estesa dell’iride, complicata dal glaucoma; fu necessaria la prima di una serie di operazioni (11 in totale), ma la vista continuò a calare. L’infiammazione generale intanto non gli lasciava pace: intorno ai 40 anni soffriva di mal di schiena e artrite come un settantenne e dovette affrontare l’estrazione totale dei denti. Il suo nuovo (ennesimo) oculista infatti pensava che in questo modo avrebbe eliminato l’infiammazione provocata dalle numerose carie e risolto anche i guai agli occhi e l’artrite. Non accadde, anche perché il ribelle e anticonformista Joyce non faceva nulla per preservare la sua salute e non ne voleva proprio sapere di arrendersi a una vita morigerata: nonostante avesse ormai famiglia e figli con l’amata moglie Nora, continuava a frequentare bordelli, a bere a volontà, a mangiare poco e male. E non si presentava ai controlli, diventando la croce del suo ultimo oculista e maggior chirurgo oftalmico dell’epoca, il professor Alfred Vogt.
Joyce arrivò da lui quasi cieco, alla fine degli anni ’ 20; Vogt lo operò, sollecitando poi visite di controllo regolari che lo scrittore disattese sistematicamente. Finché nel 1932 la situazione precipitò: il nervo ottico e la retina dell’occhio destro risultarono quasi atrofizzati. Joyce, ormai consapevole che la sua vista era del tutto compromessa, capì che avrebbe dovuto dar retta al suo medico e si pentì amaramente di non averlo fatto prima. Gli eventi che portarono alla morte dello scrittore, però, fanno capire che la lezione era ben lontana dall’essere capita fino in fondo. Dai 20 anni in poi Joyce, oltre ad affrontare vicissitudini oculistiche, problemi dentali, artrite e mal di schiena, soffrì anche di dolori addominali ricorrenti che quasi di certo erano provocati da un’ulcera e aggravati dal suo stile di vita (spesso, in gioventù, digiunava anche due giorni di fila perché non aveva soldi per il cibo). Qua, purtroppo, ci misero lo zampino medici non troppo zelanti secondo cui i problemi gastrointestinali erano tutta questione di "nervi", per colpa del caratteraccio di Joyce. Lui perciò credette che fossero disturbi psicosomatici e li trascurò per anni finché nel 1939 i dolori si ripresentarono, fortissimi. Inesorabilmente incapace di imparare dall’esperienza, Joyce non fece le radiografie prescritte.
Con l’arrivo della guerra si stabilì in Svizzera, a Zurigo. Qui, la sera del 9 gennaio 1941, fu ricoverato in ospedale e operato d’urgenza. Peritonite, dovuta a un’ulcera gastrica trascurata. Joyce morì, il 13 gennaio. Fino all’ultimo, nonostante abbia disseminato i suoi lavori di riferimenti alle malattie, si rifiutò di curare davvero se stesso.
Elena Meli