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 2011  maggio 23 Lunedì calendario

«I pozzi italiani assediati da Al Qaida e anarchici» - Da Al Qaida agli anarchi­ci: e nel mirino degli attacchi c’è sempre lui, il cane a sei zampe di Eni, simbolo del bu­siness petrolifero targato Ita­lia

«I pozzi italiani assediati da Al Qaida e anarchici» - Da Al Qaida agli anarchi­ci: e nel mirino degli attacchi c’è sempre lui, il cane a sei zampe di Eni, simbolo del bu­siness petrolifero targato Ita­lia. I dati degli attacchi a Eni in Italia e all’estero fanno im­pressione: 49 «atti ostili» in Italia dal 2009 ad oggi, 36 di­pendenti rapiti qua e là per il mondo dal 2007. A fronteggia­re gli attacchi, un ex 007: Um­berto Saccone, colonnello dei carabinieri e poi capocen­tro del Sismi all’estero, dal 2006 capo della sicurezza di Eni. I ribaltoni nei paesi arabi hanno cambiato lo scenario in cui vi muovete. Perché avete deciso di allontanare tutti i dipendenti Eni dalla Libia? «Perchè non c’erano più le condizioni di sicurezza, che per noi sono una priorità. Il 18 marzo, in coordinamento con l’unità di crisi della Farne­sina, abbiamo concluso le operazioni di rimpatrio. Oggi in Libia non abbiamo più nes­suno. La produzione è sospe­sa, in applicazione dell’em­bargo decretato dalla coali­zione internazionale. Le infra­strutture sono state messe in sicurezza in modo da ripren­dere la produzione appena la situazione lo permetterà». Non è la Libia l’unico po­sto agitato, in quelli dove an­date a estrarre petrolio. «Abbiamo complessiva­mente diciassette aree di cri­si. Dal dicembre 2010, è stato tutto un incendiarsi dal Ma­rocco fino all’Iran, dal­l’Oman al Sudan. Da queste aree abbiamo evacuato da di­cembre 373 persone. In Egit­to e in Tunisia quando la com­posizione di un nuovo Stato ha preso forma li abbiamo ri­portati sul posto. Ma teniamo gli occhi aperti, perché non è detto che i paesi stiano andan­d­o verso una definitiva stabili­tà ». Come vivono i vostri di­pendenti questo andirivie­ni? «Sanno che quando li fac­ciamo tornare in quei Paesi è perché siamo sicuri che la si­tuazione si é tranquillizzata. Non ci assumiamo rischi non prevedibili e non gestibili». Osama Bin Laden teorizza­va l’attacco non ai pozzi, pa­trimonio del popolo arabo, ma alle infrastrutture, cioè proprio agli impianti di aziende come Eni. La sua uc­cisione migliora la situazio­ne? «Da anni il dibattito sui network della jihad globale af­ferma che colpire gli interessi petroliferi è la vera jihad eco­nomica, cioè il modo miglio­re per colpire gli infedeli. La morte di Osama non cambia lo scenario, il network jihadi­sta ha cellule in Irak, nello Ye­men, in Arabia Saudita, in Al­geria, in paesi come Mali e Mauritania, fino all’Emirato islamico del Cucaso. Io credo che esista un testamento ideo­logico ed economico di Osa­ma. Ma alla fine la leadership verrà presa da chi sarà in gra­do di meglio colpire gli infede­deli e di finanziare tutte le al­tre Al Qaida di questo network mondiale». Dei paesi dove Eni è pre­sente qual è oggi il più ri­schioso? «Indubbiamente il Paki­stan, dove Al Qaida ha dimo­strato possibilità oggettive di muoversi e di colpire. Noi pe­rò siamo presenti al sud e nel­la capitale Islamabad dove il territorio è presidiato dalle forze di sicurezza in maniera più capillare». Quanto vi preoccupano gli attacchi che subite in Ita­lia? «Preoccupa l’impennata molto forte che c’è stata dopo l’avvio della “rivolta dei gelso­mini” nei paesi arabi. Ma a Bo­logna e a Firenze sono state fatte operazioni di polizia che hanno immediatamente cir­coscritto questi fenomeni». Perché tanti ce l’hanno con voi? «Ci sono gli avversari della globalizzazione, i difensori dell’ambiente, i movimenti contro i consumi. Le aziende con una forte identità come Eni sono un obiettivo privile­giato. Noi con queste realtà cerchiamo il dialogo, ci con­frontiamo, cerchiamo di capi­re le loro ragioni e di spiegare le nostre». E vi stanno a sentire? «Con molti di loro si riesce a ragionare, gli spieghiamo il ti­po di impegno di Eni nei pae­si in cui opera, ragioniamo con loro su come migliorare ancora». Ma gli attentati continua­no. Alcuni, evidentemente, non li avete convinti. «Evidentemente i loro moti­vi reali sono diversi da quelli che professano». Lei ha scritto un libro, «La security aziendale nell’ordi­namento italiano », in cui af­fronta anche i rapporti tra la security delle aziende strate­giche e i servizi segreti. Co­me sono le vostre relazioni con la nostra intelligence? «La partnership tra pubbli­c­o e privato è la migliore rispo­sta a quanto sta accadendo nel mondo. I nostri rapporti con i servizi di informazione italiani sono ottimi, d’altron­de abbiamo un obiettivo co­mune che è la creazione di maggiore sicurezza per tutti». I nostri servizi segreti do­vrebbero difendere la collet­tività. Voi vi occupate della sicurezza di una azienda pri­vata. Che garanzie ci sono che le informazioni di cui en­trate in possesso siano usate solo a difesa degli interessi pubblici? «La risposta è semplice: le strutture di Eni approvvigio­nano energia al paese, e sono soggette al segreto di Stato. Lo Stato deve tenere salde le proprie prerogative. Ma tra queste c’è anche la difesa del proprio potenziale difensivo, di cui strutture come le linee di approvvigionamento ener­getico sono una componente indispensabile. Quindi è na­turale che la tutela dei nostri asset avvenga sulla base di una integrazione tra i nostri dispositivi di sicurezza e quel­li dello Stato». Lei stesso è stato a lungo uno 007. Che differenza c’è tra il suo lavoro di allora e quello di oggi? «L’approccio di fondo è lo stesso: un operatore dell’in­telligence è uno che si colloca prima degli eventi, perché quando gli eventi si verifica­no vuol dire che lui ha già per­so ».