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 2011  maggio 22 Domenica calendario

“Non sono mai uscito dal pozzo di Alfredino” - A Vermicino ci sono tornato chissà quante volte

“Non sono mai uscito dal pozzo di Alfredino” - A Vermicino ci sono tornato chissà quante volte... Perché non sapevo come liberarmi di quel brutto sogno. Il pozzo alle spalle, e quando mi giravo c’era sempre quel buio, e mi svegliavo freddo come un morto». Quando lo calarono in quel pozzo Angelo Licheri aveva 37 anni, ma quel pozzo ha continuato a farlo prigioniero a lungo, tanto che lui il mondo di fuori l’ha ritrovato solo dopo molto tempo: «Sette, otto, forse dieci anni». Dopo la morte di Alfredino Rampi Angelo Licheri ha continuato a sgobbare sodo perché se non è del tutto provato che il lavoro nobiliti l’uomo, se non altro lo aiuta a tenere lontani i cattivi pensieri: «Ero autista-facchino alla tipografia romana “Quintini” di via di Donna Olimpia. Voi giornalisti mi avete fatto fare un sacco di cose, che ci vorrebbero due vite. Lo speleologo, l’acrobata, il fornaio, il garzone al circo Orfei, tutte invenzioni». Oggi Licheri di anni ne ha 67, vive a Nettuno ma in certe giornate balorde pensa che da quel pozzo forse non è mai uscito del tutto. Da un po’ è malato di diabete, lo scorso febbraio all’ospedale di Velletri gli hanno amputato la gamba destra ma lui dice che tutto sommato se la passa benone. Lo assiste Mary, la seconda moglie kenyota, ha tre figli e mercoledì prossimo rientrerà a Gavoi, in Sardegna, dov’è nato nel ’44 e dove a trent’anni dalla tragedia di Vermicino è nato un comitato pro-Licheri. Mercoledì 10 giugno 1981. Da quel giorno sono passati trent’anni e una lunga rassegna di tinte sfocate, quelle delle prime dirette televisive a colori. E milioni di immagini saltate da un quotidiano all’altro, da un telegiornale all’altro, da una tv privata all’altra, sballottate tra la vanità dei microfoni e un dolore durato troppo, più di 60 ore. La notizia la dà per primo un notiziario del Tg3. Tre ore dopo a Vermicino c’è una folla inverosimile, una cosa mai vista per quei tempi. Donne indecise se seguire la tragedia live o alla tv che si affacciano da terrazze abusive, contadini dagli orti, galline dai pollai. E prefetti, parroci, speleologi, pompieri, poliziotti e carabinieri. Qualche ora più tardi arriva anche il presidente della Repubblica Sandro Pertini. A raccontare l’evento sono i giornalisti della Rai e quelli delle televisioni private romane, che negli ultimi tempi si sono moltiplicate come funghi. Le più brave di tutte a guardare in camera, ognuna con il suo incubo da raccontare, sono le ragazzine dei Castelli, già pronte a fare da ospiti a un reality show. In anticipo sui tempi la tragedia di Vermicino, seguita in diretta per tre giorni e tre notti da 32 milioni di italiani, è stata infatti anche il primo reality nella storia della nostra televisione. Mercoledì 10 giugno 1981, sono le ore 7,50 della sera. La luce illumina ancora la statale che porta a Frascati. Alle ore sei Alfredino Rampi, un bambino di sei anni, è scivolato nel pozzo artesiano che si trova a pochi metri dalla villetta dei nonni e da circa un’ora è incastrato a una profondità di 16 metri. Dal pozzo Alfredino sente le voci dei soccorritori e ogni tanto chiama la mamma. La sua di voce, sempre più flebile, si udrà sino alla fine anche in tv, perché dopo averlo assicurato a una fune quelli della Rai nel pozzo hanno calato un microfono. Con una telecamera puntata in faccia ai bordi del pozzo c’è Fernando Broglio, «Nando Er Pompiere». Nando guarda la bocca del «mostro» e intuisce quello che tre giorni dopo purtroppo risulterà evidente a tutti. Le parole di Nando sono carezze ma anche struggenti bugie: («Dai Alfredino, non addormentarti che ora vengo a prenderti»), gli racconta una bella favola Nando, gli canticchia una filastrocca dei cartoni. L’operatore di una privata non ci sta a perdere la scena, prova una soggettiva ma Nando c’ha due occhi che sono un baratro, con un gesto di stizza lo allontana, e quello, porca miseria, perde il pezzo memorabile da mandare in onda. Le vibrazioni delle trivelle fanno scivolare Alfredino a 26 metri, poi a 38, poi a 61. Quando capiscono che da quell’imbuto largo non più di 30 centimetri sarà difficile riportarlo in superficie, e che le tre perforatrici che stanno scavando un cunicolo parallelo sono troppo lente, i soccorritori optano per la chiamata alle armi. Rispondono nani, fantini, tombaroli, acrobati, maestri di yoga ed ex pugili di piccola taglia. Tra i volontari c’è anche lui, Licheri, un uomo minuto con un coraggio da vendere. Nella notte (sono le 23,50 di venerdì 12 giugno), gli legano una corda alle caviglie, gli mettono una torcia elettrica in testa e lo calano a testa in giù e a mani nude. Licheri guadagna metri, molti di più di chi l’ha preceduto. Sente il respiro di Alfredino, gli sfiora la mano, una, due, sette volte ma non riesce ad afferrarla: «Allora gli parlo, ma Alfredino non mi risponde, gli pulisco la bocca, gli dico che ho da dargli la bicicletta più bella del mondo, di quelle che a Vermicino non si sono mai viste. Dico altre cose e continuo fino a quando non riesco più a inventare nulla». Poi lo tirano su, Licheri, perché ormai è lì sotto almeno da mezzora, il doppio del tempo previsto. Quando torna in superficie è in evidente stato confusionale. Scoppia in un pianto a dirotto, lo portano via, Alfredino viene dichiarato morto alle 7,20 di sabato 13 giugno, a Vermicino il set si smonta.