Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2011  maggio 22 Domenica calendario

L’OSTE E IL RATING DEL VINO

Non c’è furia all’inferno pari a quella di una donna derisa». Quando scrisse questo famoso verso, Wiliam Congreve, poeta inglese del ’600, non aveva chiaramente visto la reazione dei governi alle agenzie di rating.
Con prevedibile furore, il Tesoro italiano ha risposto per le rime al pessimismo della Standard&Poor’s sulla situazione politica e fiscale del Paese. Al taglio dell’«outlook» – le previsioni della S&P sul debito pubblico - il ministro Tremonti ha opposto un attacco alla credibilità della rating agency. «Le valutazioni espresse e confermate nei giorni scorsi dalle principali organizzazioni internazionali sono molto diverse da quelle espresse oggi da Standard& Poor’s», ha tuonato il Tesoro in un comunicato. È una tattica non nuovissima - basta chiedere ai governi di Grecia, Portogallo e Spagna - ma che può funzionare visti i dubbi dei mercati sull’attendibilità di S&P, Moody’s e Fitch, le tre società americane che dominano il mondo del rating. Le memorie di Wall Street, della City e persino di Piazza Affari sono corte ma la maggioranza di banchieri ed operatori ricorda bene gli errori clamorosi delle Big Three del rating negli anni prima della crisi.

Imbambolate da melliflui banchieri e attaccate al denaro che potevano guadagnare nel boom del credito a poco prezzo del 2005-2007, S&P e le sue concorrenti «coronarono» miliardi di dollari di obbligazioni piene di mutui subprime con le loro «triple A».

Protetti dal massimo rating possibile, investitori creduloni si buttarono sulle «collaterized debt obligations» – i famigerati Cdo – senza pensarci un secondo. L’idea, venduta dalle banche e comprata dalle agenzie di rating – era che l’alchimia di queste obbligazioni era tale che il rischio di bancarotta era praticamente nullo nonostante il fatto che gran parte dei mutui fossero in mano a gente povera con lavori precari. La complicità delle agenzie di credito in questa menzogna contribuì all’esplosione del mercato dei Cdo e convinse i mercati che fosse possibile trasformare la spazzatura in oro. Quando i Cdo si rivelarono per quello che erano – prodotti «tossici» che perdono soldi a palate non appena i prestiti non vengono ripagati – la valanga dellacrisi coprì tutti, dai fondi pensione della California, alle landesbanken tedesche, agli hedge funds di Manhattan.

Magari non proprio tutti. Le agenzie di credito sono sopravvissute completamente intatte, con gli stessi problemi e conflitti d’interesse di prima della crisi. Negli Usa, i politici hanno provato a regolarle un pochino meglio, ma né la legge Dodd-Frank, la bibbia della finanza del dopo-crisi, né la Securities and Exchange Commission, l’authority di settore, sono riusciti ad andare al di là di sforzi velleitari ed inefficaci. Il fatto che agenzie come S&P stiano tenendo banco sui problemi del debito europeo è prova tangibile della loro continua influenza sulla finanza mondiale. Un banchiere che ho chiamato questa settimana – dopo l’ennesimo tentativo fallito da parte della Sec di controllare le agenzie di rating – non riusciva quasi a parlare per la rabbia. «Wall Street è stata crocifissa e questi qua continuano a fare come gli pare», è stato il suo commento quando è finalmente riuscito a formulare una frase.

La realtà è che anche se i mercati non si fidano delle agenzie di rating, non ci sono molte alternative. I fondi pensione non hanno né le risorse né l’esperienza per analizzare ogni obbligazione che comprano e devono quindi basarsi sui giudizi di agenzie esterne. Nonostante qualche sforzo da parte di imprenditori come la mia amica Meredith Whitney, un’analista di valore che sta per lanciare la sua credit rating agency, il «triopolio» di S&P, Moody’s e Fitch rimane pressoché intatto, conferendo alle Big Three enorme potere. Il problema più grave, però, non è il monopolio da parte delle tre grandi ma il conflitto d’interessi che è al centro del loro business. Il fatto che le agenzie di rating siano pagate dalle società, banche e governi che emettono le obbligazioni è semplicemente inaccettabile. È assurdo che il Congresso americano si sia «dimenticato» di questo fatto quando ha scritto più di 2000 pagine di nuove regole del gioco finanziario con Dodd-Frank.

Se c’è un filo conduttore per gli avvenimenti della crisi è la presenza di incentivi perversi: i mutui a tassi troppo bassi, la paga dei banchieri, il corto-termismo degli investitori. Il modo in cui S&P and company vengono pagate è l’incentivo più perverso di tutti. Bisogna dire che questo conflitto d’interessi si manifesta più spudoratamente nel caso delle obbligazioni societarie, in parte perché i governi non pagano le agenzie di credito granché ed in parte perché i dati economici su cui le agenzie basano i rating nazionali sono abbastanza oggettivi. Ma il principio è lo stesso: se gli investitori non vogliono pagare i rating, non possono aspettarsi giudizi imparziali da agenzie il cui stipendio è pagato dagli emettitori. Quando si chiede all’oste se il vino è buono, non ci si può lamentare di una brutta sbronza la mattina dopo.