Armando Massarenti, Domenica-Il Sole 24 Ore 22/5/2011, 22 maggio 2011
COME NON FARSI GIOCARE DAL FATO
Chi è filosofo una volta, lo è per tutta la vita, diceva Isaiah Berlin. Anche quando, come è capitato allo scrittore americano David Foster Wallace (e allo stesso Berlin, da filosofo trasformatosi in storico delle idee), si decide di prendere un’altra strada. Nel racconto Che esagerazione!, del 1997, egli descriveva le velleità di un giovane filosofo americano, Mr Hix, alle prese con lo studio dell’estetica metacritica poststrutturalista con metodo analitico. La sua tesi di dottorato, tecnicistica e autoreferenziale, intitolata «Morte d’autore. Un’autopsia», non deve però far pensare al drammatico suicidio di Wallace, scrittore di culto, il migliore della sua generazione insieme all’amico Jonathan Franzen. È piuttosto un esercizio autoironico, che rimanda ai suoi trascorsi di filosofo e alla sua tesi di laurea, scritta agli inizi degli anni Ottanta, dedicata a un rompicapo logico dai risvolti etici che girava intorno al tema del libero arbitrio. Fato, tempo e linguaggio – ora pubblicata negli Usa – è un’arguta confutazione di un articolo di Richard Taylor che dall’anno in cui era stato pubblicato, il 1962, aveva suscitato un ampio dibattito.
A rigor di logica, secondo Taylor, il "fatalismo" che applichiamo con naturalezza agli eventi del passato (il latte è stato versato, dunque non può che essere stato versato), si dovrebbe applicare anche agli eventi futuri, con conseguenze atroci dal punto di vista etico, perché un tale determinismo annullerebbe la nostra libertà. Al che il giovane Wallace, come è naturale, si indignò profondamente e si impegnò a controbattere quella tesi usando la logica e l’analisi del linguaggio, come non era riuscito ai numerosi filosofi che si erano fino ad allora cimentati. Taylor, secondo Wallace, pur non appellandosi mai a una presenza divina, commetteva l’errore di affrontare un argomento metafisico con un ragionamento logico. Inoltre, non aveva tenuto conto né della questione del tempo nell’esperienza umana, né della questione del linguaggio che – e in ciò risuona la formazione wittgensteiniana di Wallace, benché Wittgenstein non sia mai evocato – registra il significato del nostro essere e agire nel mondo attraverso il tempo.
L’obiezione antifatalista di Wallace si fonda su un esempio drammatico e su una categoria da lui coniata, quella delle modalità fisico-situazionali, rappresentata anche mediante diagrammi di probabilità. Immaginiamo che ieri, in un campus universitario, uno studente terrorista abbia introdotto un ordigno nucleare con l’intenzione di farlo esplodere. Oggi potremmo stabilire se egli ha fatto o non ha fatto esplodere la bomba misurando le radiazioni presenti nel campus. Taylor direbbe che, se esistono tutte le condizioni necessarie a che un evento accada, allora l’evento non può non accadere; se invece non esistono le condizioni a che un evento accada, allora l’evento non potrà mai accadere. Dunque non c’è spazio per la libera azione umana. Wallace smonta questa tesi con una semplice osservazione linguistica, tratta dal linguaggio d’uso comune. C’è differenza tra affermare che «il terrorista non può avere fatto esplodere la bomba» e affermare che «il terrorista non avrebbe potuto fare esplodere la bomba». Nel primo caso la nostra affermazione si basa sulla mera constatazione che non ci sono radiazioni. Nel secondo caso la nostra affermazione si basa invece sul fatto che sappiamo che è esistito un qualche ostacolo fisico che ha impedito al terrorista, in quel determinato momento, di fare esplodere la bomba. Il che significa che nulla è predeterminato da un Fato divino, per Wallace, ma che la nostro libertà di scegliere di agire in un modo o in un altro si confronta costantemente con l’entropico divenire delle casualità. Se, afferma Wallace, il terrorista fosse già pronto a fare esplodere la bomba, con le dita poggiate sopra il tasto di detonazione e gli occhi chiusi pronti all’esplosione, questo scenario non ci autorizza comunque a dire che quello che accadrà tra pochi istanti sarà stato inevitabile. Qualsiasi evento può intralciare qualsiasi azione, e ciò in virtù del fatto che nulla di ciò che accade può essere stabilito a priori.
Wallace fa un altro esempio: immaginiamo tutti i mondi possibili nel presente, compreso quello in cui viviamo qui e ora; e poi immaginiamo tutti i mondi possibili nel futuro; esiste una serie molteplice – ma non infinita – di vie di collegamento, a partire da qualsiasi punto, tra questo mondo e uno dei mondi futuri.
Per quanto Wallace abbia un’idea entropica e complessa dell’esistenza del mondo e della vita umana nel tempo, eppure egli difende – qui e poi nei suoi romanzi – la possibilità di scegliere liberamente, di giocare responsabilmente la propria partita individuale contro il tempo e contro il caso. L’uomo non può conoscere altro che le condizioni in cui vive. Ciò che è fuori dalla sua esperienza conoscitiva non esiste, e così è per il Fato. Non si potrebbe fare altrimenti, come pare sottolineare anche il motto paradossale di Isaiah Berlin: «Immaginiamo che il libero arbitrio sia solo un’illusione; in questo caso non possiamo fare altro che vivere fingendo che non sia così».