Moisés Naím, Il Sole 24 Ore 22/5/2011, 22 maggio 2011
QUEL POSTO A UN EUROPEO CHE SA DI COLONIALISMO
Un fetore di colonialismo aleggia tra la 19ª e la H, le due strade del quadrante nordoccidentale di Washington dove sorge il quartier generale dell’Fmi. Questi effluvi sgradevoli non originano dal fatto che il ricco e potente francese di 62 anni che dirigeva l’organizzazione è accusato di aver aggredito sessualmente in uno sfarzoso hotel newyorchese una cameriera africana giovane e indigente, bensì dai forti strascichi coloniali che già stanno emergendo nella scelta del successore di Dominique Strauss-Kahn. Questi strascichi, prodotto di un antiquato baratto stipulato nel dopoguerra fra le nazioni più ricche, comportano che il posto di direttore generale dell’Fmi, un’istituzione di cui fanno parte 187 Stati, sia riservato a un europeo. Questo accordo, che di fatto discrimina il 93% dell’umanità, ha sempre goduto del sostegno degli Stati Uniti, il maggiore azionista del Fondo.
L’Fmi in cambio dei soldi esige costantemente, dai Governi che bussano alla sua porta per chiedere aiuti finanziari, l’adozione di principi liberisti di efficienza, trasparenza e meritocrazia. Eppure, questa stessa istituzione seleziona il proprio leader mediante un processo totalmente in contraddizione con quei valori. Secondo l’accordo tra Europa occidentale e Usa, l’incarico di maggior prestigio del Fondo va sempre a un europeo, mentre la presidenza della Banca mondiale è riservata a un americano. È sempre stato così da quando furono create queste istituzioni, a metà degli anni 40, e se l’accordo era coerente con la realpolitik mondiale dell’epoca, oggi appare obsoleto e controproducente per la stabilità globale.
Anche i leader del G-20, il gruppo di nazioni che rappresentano l’80% dell’economia mondiale e i due terzi degli abitanti del pianeta, riconoscono che il metodo di selezione deve cambiare. Lo scandalo è che non sia già così. E altrettanto scandalose, naturalmente, sono le innumerevoli giustificazioni che già i Paesi europei stanno propinando per spiegare perché il successore di Strauss-Kahn deve venire dal vecchio continente. Didier Reynders, il ministro dell’Economia belga, ha dato voce all’opinione predominante in Europa quando ha detto che «sarebbe preferibile se continuassimo a ricoprire noi questi incarichi». La ministra dell’Economia francese Christine Lagarde già viene sbandierata come grande favorita dalla stampa. Anche un alto funzionario brasiliano ha ammesso alla Reuters che «l’Europa probabilmente conserverà il controllo sul ruolo».
Illustri editorialisti europei come Martin Wolf e Wolfgang Münchau hanno sostenuto sul Financial Times che, visto il ruolo fondamentale dell’Fmi nelle operazioni di salvataggio dei Paesi di Eurolandia in difficoltà, solo una persona che disponga di una fitta rete di contatti politici nell’area può sperare di agire in modo efficace. Strano come nessuno si fosse posto il problema quando era toccato all’Asia e all’America Latina fare i conti con una crisi finanziaria, negli anni 90.
Un altro presupposto infondato è che i politici europei possano opporre maggiore resistenza dei loro corrispettivi asiatici e latinoamericani alle impopolari misure economiche che si accompagnano a ogni salvataggio operato dal Fondo, e che solo un altro europeo possa convincerli a scendere a più miti consigli. Il tacito sottinteso di tutto questo è che gli europei si meritano un trattamento più gentile di quello che l’Fmi offrì ai Governi della Corea del Sud e del Brasile.
In realtà, la cosa migliore per l’Europa sarebbe avere a capo dell’Fmi uno dei tanti economisti di un Paese in via di sviluppo dotati di ottima preparazione e lunga esperienza, e che hanno già gestito con successo una crisi. L’India, il Brasile e il Sudafrica hanno una ricca scorta di talenti in grado di aiutare l’Europa. Senza contare che in futuro il nuovo direttore generale si dovrà misurare anche con problemi economici che potrebbero insorgere in alcuni dei Paesi in via di sviluppo che in questo momento sono in pieno boom. E poi c’è il piccolo dettaglio che, mentre il peso dell’Europa nell’economia mondiale si sta rapidamente riducendo, quello di Paesi come Cina, India e Brasile si sta espandendo a ritmi sempre più sostenuti. Perché le potenze economiche emergenti dovrebbero essere tenute fuori dalle posizioni di potere all’interno delle maggiori istituzioni finanziarie mondiali?
La tesi di chi sostiene che il prossimo capo dell’Fmi dovrebbe venire da una regione o da una nazione prestabilita è fallace, perché può essere applicata praticamente a qualsiasi regione. Quel posto dovrebbe essere aperto a qualsiasi candidato dotato dei requisiti necessari, da qualunque parte del mondo provenga; e il processo di selezione dev’essere inclusivo, trasparente e basato esclusivamente sui meriti professionali, sull’esperienza e sull’integrità del candidato.
(Traduzione di Fabio Galimberti)