Marco Fortis, Il Sole 24 Ore 22/5/2011, 22 maggio 2011
PERCHÉ POSSIAMO FARCELA
Standard and Poor’s un mese fa ha abbassato l’outlook (non il rating) degli Stati Uniti. Ieri ha abbassato l’outlook (non il rating) dell’Italia. Nei prossimi giorni ci auguriamo di vedere in Italia un adeguato numero di economisti, analisti e politici di entrambi gli schieramenti altrettanto pronti, come fecero a suo tempo in tanti per gli Usa, a spiegare che anche il nostro Paese non è assolutamente a rischio per ciò che riguarda il suo debito sovrano. L’outlook delle Agenzie di rating non è niente di più che una previsione, come tante se ne fanno, molte azzeccate ed altrettante regolarmente sbagliate. La previsione di Standard and Poor’s, nella fattispecie, è che il rating dell’Italia ha il 33% di probabilità di peggiorare nei prossimi due anni a causa di due fattori principali: la bassa crescita del Pil ed il rischio di instabilità politica.
Su quest’ultimo aspetto abbiamo poche certezze ma molte speranze. Non crediamo, infatti, che la linea di rigore sui conti pubblici impostata dal ministro dell’Economia Giulio Tremonti (linea che non solo ha evitato all’Italia di fare la fine dei Pigs, ma che le ha anche permesso di uscire dal loro poco esclusivo club) cambierebbe di molto persino nell’ipotesi di uno sconvolgimento degli attuali equilibri politici. Infatti, un Governo di centro-sinistra serio che sull’arco temporale dell’outlook di Standard and Poor’s subentrasse a quello di centro-destra non avrebbe altra strada che proseguire una politica sui conti pubblici simile a quella attuale. Mentre un Governo di centro-destra che per riguadagnare facili consensi cercasse di allargare nuovamente i cordoni della borsa, ribaltando la linea sin qui seguita, si auto-affosserebbe nel giro di poche settimane, mettendo per di più a rischio, in quel caso sì, l’Italia.
Riflessioni più sostanziali merita la cosiddetta questione della crescita, molto dibattuta anche su questo giornale. Ricordiamo, anzitutto, che, ad eccezione della Germania, nessun Paese avanzato ha dato finora prove evidenti di essere in grado di crescere in modo importante dopo la crisi del 2008-2009 senza ricorrere a stimoli artificiali forti e non prolungabili nel tempo, si chiamino essi quantitative easing o incentivi ai consumi. Prova ne è che nel 2010, se gli altri maggiori Paesi europei avessero ridotto la spesa pubblica dello 0,6%, come ha fatto l’Italia (anziché aumentarla come invece essi hanno fatto a piene mani), il nostro Pil in termini reali (+1,3%) risulterebbe aumentato più di quello di Olanda (1,2%), Francia (1,1%), Gran Bretagna (1%) e Spagna (-0,1%), ad esclusione di quello tedesco (che calerebbe però esso stesso al 3%).
Ma se la debole crescita del Pil rispetto alle altre economie viene idealmente associata ad una maggiore difficoltà dell’Italia a ridurre il proprio rapporto debito/Pil, un altro ragionamento ben più sostanziale va fatto. E cioè che ai fini del calo del rapporto debito/Pil la crescita che conta non è quella del Pil reale, bensì quella del Pil nominale. Sotto questo profilo si può argomentare che l’Italia sia stata negli ultimi anni un Paese a bassa crescita? Non è stata certamente un fulmine ma nemmeno una lumaca, perché dal 1999 al 2010 l’aumento cumulato del Pil italiano in valore è stato del 37%, più forte del 24% della Germania e non distante dal 42% della Francia. Tenendo conto del fatto che molta della ripresa del 2010 in altri Paesi è stata sostenuta in deficit e con un consistente supporto della spesa pubblica, è interessante notare che, in valute nazionali, dal 1999 al 2007, prima cioè che scoppiasse la crisi dei mutui subprime, il Pil italiano era aumentato cumulativamente del 37%, cioè come quello austriaco, più o meno come quello francese (+39%), molto più di quello tedesco (+21%), per non parlare di quello giapponese (+4%). Naturalmente altre economie erano andate molto più forte di quella italiana, spinte da "bolle" finanziate abbondantemente con debito privato o pubblico, come ad esempio Irlanda (+110%), Grecia (+80%) e Spagna (+82%). Ma oggi sappiamo bene che fine hanno fatto questi Paesi e che giudizi negativi danno di loro le stesse agenzie di rating.
Se poi consideriamo altri elementi, la riduzione dell’outlook sull’Italia da parte di Standard and Poor’s appare per certi versi ingenerosa. Intanto, nel 2011 l’Italia sarà l’unico Paese del G-7 assieme alla Germania con un avanzo statale primario, dopo aver già avuto lo scorso anno soltanto un modesto deficit primario. Il debito pubblico italiano, considerando i Paesi del G-7 e i 4 Pigs, dal 2007 al 2010 è quello aumentato di meno in punti di Pil, mentre la situazione del debito privato in Italia è assolutamente la migliore tra i Paesi avanzati così come quella delle sue banche, poco esposte, tra l’altro verso i Pigs. Il debito pubblico italiano all’estero, per di più, è inferiore in valore assoluto a quelli di Germania e Francia e addirittura simile a quello francese in rapporto al Pil.
Inoltre, la posizione netta sull’estero dell’Italia, sempre in rapporto al Pil, è del tutto simile a quella degli Stati Uniti o della Gran Bretagna e poco peggiore di quella della Francia. Ma il debito estero complessivo italiano (privato e pubblico) accumulato nel tempo ed il disavanzo di conto corrente attuale non sono riconducibili in alcun modo, come nel caso di Usa, Inghilterra e Francia, ad una perdita progressiva di competitività del sistema produttivo in sé. Come mostra anche il fatto che nel primo trimestre 2011 l’export italiano, inizialmente ripartito più lentamente, è cresciuto in valore più di quello tedesco: +18,4 per cento.
I nostri problemi di squilibrio con l’estero dipendono non tanto dalla competitività delle imprese, che pure deve aumentare se esse vogliono affrontare le sfide globali, ma soprattutto da due altri fattori principali: la crescente "bolletta" energetica (non avendo noi né nucleare né carbone), che vanifica un surplus manifatturiero italiano che è stato nel 2010 di oltre 40 miliardi di euro (mentre Usa, Gran Bretagna e Francia sono in deficit da anni per i manufatti); ed il pagamento degli interessi sul debito pubblico sottoscritto dagli investitori stranieri, interessi che costano tanto più all’Italia quanto più peggiorano i rating. Due problemi che, considerando il carattere strutturale di quello energetico, non si risolvono cambiando la politica seguita sinora da chi governa i nostri conti pubblici ma semmai proseguendola con ancor maggiore rigore.