Federico De Rosa, Corriere della Sera 21/05/2011, 21 maggio 2011
LA BATTAGLIA DEI MILLISECONDI PER GLI SCAMBI IN PIAZZA AFFARI —
L’esigenza, certo, non è sentita da tutti gli operatori. Anzi, i trader tradizionali ne farebbe anche a meno. Ma a distanza di quattro anni dalla fusione con il London Stock Exchange, la Borsa di Milano starebbe pensando di riportare in Italia i server su cui girano le transazioni di Piazza Affari: azioni, Etf, Covered Warrant, Bond. La distanza tra Milano e Londra, infatti, sta diventando un ostacolo. Almeno per gli «high frequency trader» , ossia quei software che senza intervento umano sono in grado di impartire migliaia di ordini su più mercati in pochi millisecondi, sfruttando la rapidità di esecuzione — prossima ai limiti fisici determinati dalla velocità della luce — per guadagnare. Il software riesce a elaborare gli ordini impartiti dai trader tradizionali prima che questi arrivino sulle piattaforme di negoziazione, muovendosi quindi in anticipo immettendo migliaia di ordini in grado di tirare su il prezzo. Un’operazione che avviene in tre-quattro millisecondi. Questo significa che un solo centesimo di dollaro di differenza può trasformarsi in milioni di dollari di profitti. Avere i server a Londra annullerebbe questa possibilità: anche le macchine hanno bisogno di tempo per far transitare le informazioni e, pur larga che sia la banda, trasmettere un ordine da Milano a Londra non è uguale a farlo da Milano a Milano C’è qualche millisecondo di differenza, il cosiddetto «tempo di latenza» , ed è proprio quello su cui giocano gli high frequency trader. Di qui l’idea di riportare i server in Piazza Affari e intercettare così la domanda di questi operatori. Il fenomeno non è marginale. La società americana di consulenza Tabb Group ha stimato che gli high frequency trader negoziano il 75%del volume di scambi del New York Stock Exchange. In Europa, dopo l’entrata in vigore della Mifid, il fenomeno è esploso e oggi vale all’incirca il 50%degli scambi, mentre per Piazza Affari la percentuale sarebbe di appena il 20%. Ma sta crescendo, o perlomeno sta aumentando il livello di elaborazione degli algoritmi e la velocità di calcolo dei computer utilizzati dagli intermediari. Non solo dai più piccoli ma anche da quelli tradizionali, ossia le banche. In America, sebbene nessuno lo ammetta, le grandi investment bank hanno scoperto da tempo l’high frequency trading. Dopo la grande crisi fu proprio grazie ai megaprofitti da trading che i big di Wall Street riuscirono a rimpolpare i bilanci. E c’è chi ricorda ancora la preoccupazione, per non dire terrore, di Goldman Sachs quando scoprì il furto di alcuni codici del sistema di trading della banca da parte di un dipendente, l’ingegnere informatico Sergey Aleynikov, poi arrestato dall’Fbi. Codici che la stessa Goldman definì «pericolosi» . Erano quelli per il trading ultraveloce. Insomma, l’alta frequenza non è più un segmento di mercato per pochi «amatori» . Al London Stock Exchange lo sanno bene. Avvicinando i server agli operatori intercetterebbero quindi una fetta sempre più grande di scambi sui titoli trattati a Piazza Affari, e quindi commissioni, che altrimenti girerebbero su altre piattaforme.
Federico De Rosa