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 2011  maggio 21 Sabato calendario

DA KISSINGER ALLE SFURIATE DI BUSH PADRE: TUTTE LE CRISI DI UNA «RELAZIONE SPECIALE»

«Let Israel bleed» , faccia sanguinare Israele, disse Henry Kissinger a Richard Nixon. Succedeva nel 1973, nel pieno della guerra del Kippur. Di fronte alla richiesta del premier Golda Meir agli USA di lanciare un ponte aereo strategico per rifornire l’esercito israeliano in difficoltà di fronte alle forze arabe, il cinico segretario di Stato, come rivelò il New York Times, voleva che «Israele sanguinasse quel tanto necessario a renderlo più cedevole in vista della diplomazia post-conflitto che aveva in mente» . E quindi consigliò al presidente di ritardare l’operazione, che quando finalmente venne avviata passò alla storia come «il ponte aereo che salvò Israele» . Due anni dopo, da capo della diplomazia nell’amministrazione Ford, fu ancora Kissinger a incendiare i rapporti con lo Stato ebraico, chiedendo a muso duro al premier Yitzhak Rabin di ritirare parzialmente le truppe dal Sinai (che occupavano dal 1967) e ricevendone un rifiuto. A credere all’ambasciatore israeliano a Washington, Michael Oren, fu uno dei peggiori momenti di crisi nei rapporti Usa-Israele degli ultimi 35 anni. Oren, storico di vaglia, ricordava il precedente nella primavera di un anno fa, per sottolineare la gravità della tensione venutasi a creare tra Washington e Gerusalemme, dopo lo «schiaffo in faccia» subito dal vicepresidente Joe Biden il 12 marzo 2010: arrivato in Terra Santa con tutte le buone intenzioni, il filoisraeliano Biden si era visto accogliere con l’annuncio della costruzione di 1.600 nuove case a Gerusalemme est, cioè in territorio occupato: una provocazione. Era seguita la lavata di capo telefonica di Hillary Clinton a Benjamin Netanyahu, su preciso mandato di Barack Obama, nella quale il segretario di Stato aveva detto fra l’altro che il presidente si considerava «profondamente ferito e offeso» . E di nuovo su tutte le furie era andato Obama poche settimane dopo, quando in visita a Washington Netanyahu prima d’incontrarlo gli aveva inflitto un’altra umiliazione, dicendo al pubblico amico di un’organizzazione filoisraeliana: «Gerusalemme non è un insediamento, ma la nostra capitale» . Seguì un incontro semiclandestino alla Casa Bianca, che solo in parte ricucì lo strappo. Insomma, c’è una chimica personale complicata e problematica tra i due attuali responsabili del più centrale, stretto e indiscutibile rapporto strategico dell’intero scacchiere mondiale: quello tra gli Stati Uniti e lo Stato ebraico. È bene fissare subito i paletti. Nessuna antipatia o idiosincrasia personale ha mai messo in dubbio in 35 anni (il periodo qui considerato) le ragioni e la realtà di un’alleanza, a cui una media annuale di 3 miliardi di dollari in aiuti economici, umanitari e soprattutto militari da parte degli Usa, dà forza ineguagliata e sostanza concreta a un pilastro bipartisan della politica estera americana: l’impegno imprescindibile alla sicurezza dello Stato d’Israele e alla difesa del suo diritto di esistere. Ma questo filo rosso, che si dipana ininterrotto attraverso il dopoguerra e deve la sua robustezza tanto alla forza della comunità ebraica d’America, quanto alla scelta naturale di schierarsi al fianco dell’unica, vera democrazia della regione, non ha impedito brusche impennate e passaggi critici. Non corse buon sangue, per esempio, tra il presidente democratico Jimmy Carter e il premier conservatore Menachem Begin, che dopo aver firmato il Trattato di Camp David con il leader egiziano Anwar Sadat nel 1978, mai accettò il corollario carteriano di una «homeland» per i palestinesi. Meglio andò negli 8 anni di Ronald Reagan, il primo repubblicano a vincere una fetta significativa del voto ebraico, quando le priorità antiterrorismo e antisovietiche dell’amministrazione fecero combaciare perfettamente le relazioni bilaterali. Neppure il caso Pollard, la spia americana che passò segreti nucleari a Israele, e l’iniziativa di pace del segretario di Stato George Shultz, preceduta dall’apertura di un dialogo con l’Olp di Arafat, impedirono che la Casa Bianca di Reagan e il Congresso della legislatura numero 100 siano ancora considerati «i più filoisraeliani di sempre» . — la musica cambiò con il primo Bush, figlio di quel Prescott Bush che aveva anche diretto una banca newyorkese dove ricchi tedeschi filonazisti depositavano i loro beni. Appena insediatosi nel 1989, George Bush senior fece dire al suo segretario di Stato James Baker che Israele doveva abbandonare le sue politiche espansionistiche. Certo lo difese dalle minacce e dagli Scud di Saddam Hussein nella Guerra del Golfo del 1990. Separato da reciproca antipatia con il premier israeliano Shamir, il primo Bush fu l’unico presidente a minacciare il blocco degli aiuti se Gerusalemme non avesse sospeso gli insediamenti nei territori. Quanto scarse, per usare un eufemismo, fossero le affinità dei due amici «wasp» Bush e Baker con Israele, lo rivelò, voce dal sen fuggita, quest’ultimo. In una mai smentita conversazione privata con un collega, all’obiezione che la comunità ebraica d’America non avrebbe gradito la politica dell’amministrazione, Baker rispose: «Fuck the Jews, they didn’t vote for us anyway» , al diavolo gli ebrei, comunque non hanno votato per noi. Il che era stato vero nel 1988 (27%contro il 73%di Dukakis) e sarebbe stato ancora più vero nel 1992, quando a Bill Clinton andò il 78%del voto ebraico e a Bush solo il 15%. Clinton ebbe ottimi rapporti con i leader laburisti, Rabin e Barak, ma non vita facile col solito Benjamin Netanyahu, il quale pure firmò gli accordi di Wye nel 1998. Il resto fu una serie di inutili tentativi di salvare la faccia, sporcata dallo scandalo Lewinsky: ma da Oslo a Camp David, nonostante le buone intenzioni di Ehud Barak, Clinton non riuscì mai a convincere Arafat. E fu singolare destino quello di Bush il giovane, figlio di cotanto padre, trasfigurare la storia familiare e trasformarsi, sull’onda dell’ 11 Settembre, in uno dei presidenti più filoisraeliani, aiutato da buoni rapporti con Ariel Sharon nonostante qualche incomprensione iniziale. Harte Wendung, svolta brusca è invece quella impressa non da un presidente ma da un generale, sia pure il più importante di questo scorcio di secolo: David Petraeus. Fu lui a dire, poco più di un anno fa, che la politica di appoggio incondizionato degli Usa a Israele va contro gli interessi americani nella regione, mettendo anche a rischio la vita dei soldati impegnati nell’area. Un dato di fatto che non cambia l’alleanza strategica, ma sicuramente la rende oggetto di più attenta riflessione.
Paolo Valentino