21 maggio 2011
NON SI TORNA AL ’67, MA IL NEGOZIATO PUÒ RIPARTIRE DA LÌ
Frontiere del 1967, cioè la Linea verde. Una indicazione così apparentemente semplice impedisce a israeliani e palestinesi di tornare al negoziato, fa litigare gli israeliani con gli americani e mette destra d’Israele contro sinistra. Perché un confine che prima della guerra dei Sei Giorni, 44 anni fa, divideva lo Stato ebraico dal regno giordano, oggi è così importante?
La ragione è che quella indicazione, che sottintende anche la spartizione di Gerusalemme (altro punto fondamentale e controverso della trattativa), definisce quale pace avranno, se ce ne sarà una, i due nemici. Nessuna amministrazione americana aveva così esplicitamente menzionato le frontiere del ’67. Prima del discorso di Barack Obama, giovedì, solo gli europei, gli arabi moderati e l’Onu insistevano su quella demarcazione come base del negoziato di pace. Con una lettera ad Ariel Sharon, George Bush aveva al contrario riconosciuto le successive annessioni territoriali israeliane. Obama ha vanificato quel documento, mettendo le rivendicazioni dei palestinesi sullo stesso piano delle israeliane.
Nessuno, nemmeno i palestinesi dell’Autorità di Abu Mazen, pensa che quella antica del 1967 debba essere la nuova frontiera fra Israele e Palestina. È solo il punto di partenza dal quale negoziare quella definitiva. In Cisgiordania ci sono 517mila israeliani (21 ogni 100 palestinesi) e 470 insediamenti, alcuni sono ormai delle città: anche i palestinesi capiscono che è impossibile evacuarli tutti. Uno scambio territoriale dell’8% per esempio, permetterebbe a Israele di annettere circa l’80% delle colonie, quelle più popolate. Per la comunità internazionale, dunque, la Linea verde è solo l’unità di misura per stabilire quanto deve essere dato in cambio di quanto.
Per Israele le frontiere del 1967 sono inaccettabili perché insicure. Per i militari è essenziale mantenere il controllo della valle del Giordano, cioè il confine orientale del futuro Stato palestinese. Alcuni ex generali, ex capi del Mossad e dei servizi interni, lo Shin Bet, sostengono invece che niente garantisca la sicurezza d’Israele quanto uno Stato palestinese in pace e che possa funzionare. Una corrente di pensiero politica ritiene che una Palestina possa nascere nell’attuale autonomia palestinese: isole semi-indipendenti, separate fra loro e circondate da colonie, zone militari e strade per gli israeliani. Il Governo Netanyahu però è controllato da una maggioranza ideologica che nega ogni forma di Stato palestinese. Solo Hamas verso Israele è altrettanto negazionista.
Isolando i palestinesi, Israele rischia di isolare se stesso dalla comunità internazionale. Ma il problema è un altro e lo aveva denunciato per primo Ariel Sharon un decennio fa, sollecitato dallo studioso italo-israeliano Sergio Della Pergola: la questione demografica. Dal Mediterraneo al fiume Giordano oggi vivono 5,7 milioni di ebrei e 5,5 di arabi fra Israele, Gaza e Cisgiordania. Nel 2014 raggiungeranno la parità, ciascuno a 6,1 milioni. Nel 2020 la popolazione palestinese supererà quella ebraica: 7,2 milioni a 6,7. I dati sono dell’Ufficio centrale di statistiche palestinese. È questo che intendeva Barack Obama quando ricordava che la politica territoriale annessionista del Governo israeliano non è l’arma più efficace per la sicurezza di uno "Stato ebraico e democratico".