Maurizio Ferrera, Corriere della Sera 21/5/2011, 21 maggio 2011
LA VOCE DEI GIOVANI SPAGNOLI TRADITI DAL MODELLO ZAPATERO
Fra il 2004 e il 2008 il «modello Zapatero» si era affermato come punto di riferimento obbligato del riformismo lib-lab europeo. Diritti civili (incluso il matrimonio gay), parità di genere, nuove politiche per promuovere il lavoro femminile, l’autonomia dei giovani, la tutela dei più deboli: soprattutto se visto dall’Italia, il sentiero imboccato dalla Spagna sembrava pieno di promesse in termini di modernizzazione sociale. La scossa data alla stagnante società iberica avrebbe prodotto molti frutti — si pensava — anche sul piano della crescita economica. E questa profezia sembrò avverarsi quando il Pil pro capite spagnolo superò la media Ue, portandosi davanti a quello italiano nel 2007.
All’inizio del suo secondo mandato, Zapatero annunciò trionfalmente che il nuovo traguardo della corsa spagnola sarebbero stati i Pil pro capite francese e persino tedesco. Contando sui dividendi della crescita, promise anche nuovi investimenti nel sociale per 22 miliardi di euro.
Già pochi mesi dopo le elezioni, l’economia spagnola entrava però nella recessione più acuta del suo ultimo cinquantennio. Una crisi legata non solo alle vicende di Wall Street, ma ad un’ enorme bolla edilizia (già scoppiata nel 2007) e più in generale alle mancate riforme strutturali: liberalizzazioni, abbattimento della pressione fiscale, amministrazione pubblica più efficiente, mercato del lavoro. Il modello Zapatero mostrava così i suoi veri limiti: l’incapacità di essere «lib» anche in economia e non solo nella società; l’eccesso di ambizione e un vistoso deficit di realismo e pragmatismo. Gli elettori spagnoli se ne sono accorti e, con un indice di sfiducia pari all’ 80%, Zapatero è diventato oggi il leader meno popolare dalla morte di Franco, avvenuta nel 1975.
Il governo del Psoe ha in particolare fallito su uno dei suoi obiettivi più qualificanti e rilevanti: il lavoro e l’autonomia dei giovani. Fra gli under 35 la disoccupazione supera ormai il 40%, un tasso più alto di quello tunisino o egiziano. Non c’è da stupirsi se gli indignados sono soprattutto ragazzi e ragazze sotto i trent’anni e se i bersagli principali della loro protesta sono i posti di lavoro che mancano, i contratti precari, i compensi da fame. E non sorprendono neppure i toni anti politici dei discorsi che si sentono alla Puerta del Sol, gli slogan che accusano istituzioni e partiti di essere incompetenti, incapaci di gestire la crisi e ammortizzare i suoi effetti. Fino all’autunno del 2008 Zapatero rifiutava addirittura di menzionare la parola crisi («inelegante e poco patriottica» , disse al Pais) e preferiva imputare tutti i problemi dell’economia spagnola ad un «complotto conservatore del mondo anglo sassone». Convinto che si trattasse di una congiuntura passeggera, il governo rafforzò a fine 2009 le indennità di disoccupazione anche per i giovani precari, ritirando però il provvedimento solo dodici mesi dopo per mancanza di fondi: una marcia indietro che ha esasperato gli animi, considerati i sussidi pubblici che le grandi banche hanno invece continuato a ricevere. Come quello italiano, il mercato del lavoro spagnolo è diventato un vero e proprio calvario per i giovani: tre su quattro hanno contratti temporanei e, quel che è peggio, hanno probabilità crescenti di restare precari per la maggior parte della vita attiva. Le misure del governo socialista non sono state in grado di arginare questo scivolamento, anche per le forti resistenze dei sindacati a modificare le regole vigenti sui contratti a tempo indeterminato: una sindrome che ricorda molto quella del nostro paese.
Nati come movimento spontaneo, senza legami con organizzazioni politiche, gli indignados esprimono un disagio sociale profondo e «oggettivo» , ma non hanno per ora una piattaforma di richieste precise e coerenti né un profilo ideologico definito (si riconoscono solo nel ni, ni, no al Psoe e no al Pp). La sinistra li sta corteggiando ed è possibile che il movimento si saldi almeno in parte con il radicalismo no global. Così come è possibile che l’indignazione si sgonfi, che non si inneschi alcun processo di organizzazione e istituzionalizzazione di massa, un po’ come è successo in Italia con le proteste anti-Gelmini. Rispetto a queste ultime, il movimento spagnolo sembra avere un’agenda più ampia, che comprende lavoro, welfare, ambiente, opportunità e forme di partecipazione politica. Ma, proprio come nel caso degli studenti che manifestarono a Roma prima di Natale, gli indignados chiedono soprattutto di essere ascoltati, reclamano riconoscimento, rispetto, prospettive per il domani. In ciò non sono poi così diversi dai giovani che protestano nel Nord Africa e nel Medio Oriente. Sul piano dei contenuti, le risposte che si devono dare a questi giovani variano da paese a paese, a seconda delle circostanze economiche e istituzionali. In termini politici, la sfida è però la stessa: ascoltare, dialogare, proporre e infine includere. Nessun sistema politico può funzionare e persino tenersi insieme se i suoi giovani si sentono «fuori» e si mobilitano perché sono convinti di non avere un futuro.