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 2011  maggio 21 Sabato calendario

In mancanza di un’aspirina, va benissimo un cambio di passo. Se la coalizione segnala principi di scollamento, se l’azione di governo dimostra qualche inefficacia, se il partito cede alle prime forze centrifughe, allora l’analgesico aiuta a dormire e il cambio di passo a campare

In mancanza di un’aspirina, va benissimo un cambio di passo. Se la coalizione segnala principi di scollamento, se l’azione di governo dimostra qualche inefficacia, se il partito cede alle prime forze centrifughe, allora l’analgesico aiuta a dormire e il cambio di passo a campare. Umberto Bossi lo ha richiesto e in due giorni Silvio Berlusconi glielo ha concesso: cambio di passo qui e ora. E cambio di passo a Milano per riconquistarla. Cambio di passo a Napoli per espugnarla. Soprattutto, dunque, il cambio di passo che restituirà senso a un’alleanza e condurrà alle riforme (il cambio di passo ne è ontologicamente preludio). In questo caso favoriranno l’occupazione giovanile, lo sviluppo economico, la natalità imprenditoriale e una serie di altri buonissimi propositi. Brindisi alla salute e lunga vita. Il cambio di passo si celebra di solito con un rimpasto, un vertice eccezionale, una tavola rotonda di scenografico pregio. I fasti della reggia di Caserta dovevano annunciare quelli del governo di Romano Prodi: nel gennaio del 2007, dopo qualche mese di quotidiana rissa intestina, il premier riunì la dozzina di leader di coalizione perché stabilissero la pace e il cambio di passo. Quaranta giorni dopo ci fu la crisi (sull’Afghanistan), il reincarico a Prodi e un successivo, ulteriore cambio di passo nell’occasione ribattezzato «ripartenza rilanciata». Il termine ripartenza (coniato per nobilitare, nel gergo del football, l’italiana e opportunistica tattica del contropiede) fu introdotto in politica da Ignazio La Russa quando, a inizio del 2004, si pose l’esigenza di un «rilancio» detto anche «rilancio a maggior velocità» e che culminò, pochi mesi dopo, con la giubilazione di Giulio Tremonti (Gianfranco Fini nell’occasione parlò di «cambio di passo» così come se lo augurò alla scuola politica di Gubbio nel 2009 e alla Direzione nazionale del Pdl dell’aprile dell’anno scorso, il giorno del «sennò che fai? Mi cacci?»). Il valore aggiunto della «ripartenza rilanciata» di Prodi fu un decalogo di ampia ed eucartistica vaghezza: rispetto degli impegni internazionali, sollecitudine straordinaria per la cultura, fondi a miliardate per le energie rinnovabili... Il decalogo durò quattro mesi e sfociò, nel giugno del 2007, in «cinque punti sui quali basare l’azione di ripartenza». E cinque erano i punti che Silvio Berlusconi indicò lo scorso dicembre come capisaldi del cambio di passo non tanto del governo - che nel giudizio del premier procedeva e procede a marcia di bersagliere - ma del Parlamento. Che, infatti, gli restituì la maggioranza messa in dubbio dalla fuoriuscita dei finiani. Berlusconi vaticinò la riduzione delle tasse, il contrasto all’immigrazione clandestina, la riforma della giustizia e altre simili fantasticherie che egli ritira fuori di stagione in stagione se è il caso di delineare un cambio di passo, naturalmente altrui. Per tornare al povero Prodi, da un certo punto in poi ci si mise anche Walter Veltroni col suo Partito democratico. Un giorno sì e l’altro forse, Veltroni annunciava il cambio di passo o la fase due o il colpo di reni. «Ora la finanziaria e poi una fase nuova», diceva il neosegretario della vocazione maggioritaria che, per distinguersi dai predecessori, non s’accontentava del cambio di passo o della ripartenza o della ripartenza rilanciata e annichiliva la concorrenza inserendo «il turbo». La cifra della Seconda repubblica è il frenetico scatto verbale. Uno dei più affezionati al cambio di passo è Piero Fassino che lo ha chiesto all’Ulivo nel 2002 perché diventasse Nuovo Ulivo, nel 2006 per «riposizionare la Finanziaria», di nuovo nel 2006 per ottenere riforme in questo caso «strutturali», nel 2008 perché il Pd abbandonasse «il duello fra Orazi e Curiazi», e così via per un totale di una decina di occasioni. In media una all’anno. In questa legislatura hanno proposto o individuato un cambio di passo Mara Carfagna, Renato Brunetta, Roberto Formigoni, Maurizio Sacconi, Gianni Alemanno, Margherita Boniver e altri ancora; uno sulle pari opportunità, l’altro sulle missioni estere, l’altro ancora sugli investimenti dell’Expo. In forma più privata, due anni e mezzo di vita del Partito democratico sono trascorsi attraverso il cambio di passo sollecitato da Fassino, come detto, ma anche da Enrico Letta («abbiamo dimostrato che è possibile»), da Sergio Chiamparino («sui grandi temi come federalismo, fisco e lavoro») da Dario Franceschini («senza si muore») e di nuovo da Veltroni, stavolta a capo di quarantanove senatori che lo chiedevano per nausea delle «liturgie stantie» (Veltroni, però, è uno che ha introdotto «fasi nuove» al Pds, ai Ds, all’Ulivo, all’Unione, al Pd e una volta anche alla Casa delle libertà). Il segretario Pier Luigi Bersani ebbe la scintilla di rispondere che per cambiare passo bisogna averne uno. Non per niente Antonio Bassolino è riuscito a chiedere un cambio di passo, sebbene non sia chiaro a chi lo chiedesse, sulla questione rifiuti in Campania. E siccome è utile vedere fin dove affondano le radici del cambio di passo, si ricorda che nel 1995 intendeva garantirlo Lamberto Dini dopo il ribaltone. E lo annunciò Massimo D’Alema nell’ottobre del ’98 sostituendo Prodi: «Dopo la stagione dei sacrifici, arriva quella della svolta». Ecco, bastava un’aspirina.