Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2011  maggio 20 Venerdì calendario

TRAPPOLA INCENTIVI: PIÙ COSTI CHE SPINTA

Tanti, complicati e rifinanziati con il contagocce. Gli strumenti pubblici di agevolazione rappresentano sempre di più un rompicapo per le imprese in cerca di un volano per nuovi investimenti: la garanzia di successo non è assicurata perché l’efficacia è condizionata da troppe variabili, senza contare la difficoltà di districarsi in un sistema composto da circa 1.300 misure, di cui 1.200 regionali e un centinaio nazionali, molte delle quali distintesi per farraginosità e lentezza dell’iter di assegnazione.

Nel pieno della crisi economica le erogazioni degli aiuti sono scese a 3,5-3,7 miliardi, con un calo annuo ormai superiore al 10 per cento. La difficoltà di gestire gli aiuti pubblici, dai crediti d’imposta agli incentivi tramite bando, dalle agevolazioni alla ricerca a quelle specifiche per il Mezzogiorno, si è rimaterializzata con tutta evidenza riaccendendo il dibattito tra studiosi ed esperti della materia che restano su tesi contrapposte. Da un lato diversi studi della Banca d’Italia hanno evidenziato il mancato effetto addizionale, dall’altro ricercatori di una diversa scuola di pensiero, vedi il Met, difendono la validità di quello che per certi versi rimane un ultimo baluardo di politica industriale.

Teorie a parte, la casistica aziendale è stracolma d’incidenti di percorso o progetti rimasti malinconicamente sulla carta o a metà strada. Per le imprese di dimensioni maggiori il gioco spesso vale la candela e un eventuale ritardo nella concessione ed erogazione dell’incentivo non scalfisce le strategie aziendali per le quali il contributo statale non è dirimente. Questo spiega perché circa la metà delle aziende manifatturiere con più di 250 addetti abbia ricevuto un sostegno pubblico all’innovazione, mentre la percentuale si abbassa al diminuire della dimensione dell’impresa.

Per i "piccoli" la strada è quasi sempre in salita: c’è da considerare il costo gestionale collegato all’accesso ai vari strumenti, l’onere di affidarsi quasi sempre a dei consulente esterni, persino la difficoltà in certi casi d’interagire con la Pubblica amministrazione attraverso il canale online. Da manuale, a questo proposito, il caos generato nel 2009 dal click day sul credito d’imposta per la ricerca, con conseguente valanga di ricorsi da parte di chi era rimasto tagliato fuori. Sembrerà banale ma nell’Italia del "digital divide", dove la maggior parte dei distretti industriali non accede ancora alla banda larga, una procedura di selezione basata sulla velocità di collegamento è un crudele ossimoro.

Un’indagine della Banca d’Italia torna indietro di oltre dieci anni, alla cosiddetta Visco Sud (legge 388 per il credito d’imposta), per ritrovare incentivi che si siano rivelati efficaci nello stimolare investimenti addizionali delle piccole imprese. In quel caso l’assegnazione in via automatica avvantaggiò anche imprese di dimensione inferiore e di minore redditività per le quali la disponibilità di finanziamenti può rappresentare un vero vincolo agli investimenti. Al contrario, secondo Via Nazionale, la 488 avrebbe indotto soprattutto effetti di sostituzione temporale: in pratica la presenza dei sussidi ha per lo più incentivato le imprese a fare oggi quello che avrebbero potuto comunque realizzare ieri o domani.

Ma, più di ogni altro elemento, a determinare o meno il successo degli aiuti pubblici è il fattore tempo. Non ha dubbi Giuseppe Tripoli, capo dipartimento per l’Impresa del ministero dello Sviluppo economico e garante per le Pmi: «La prima richiesta che arriva dalle imprese è la certezza dei tempi di erogazione». Anche pochi ma subito è il motto più diffuso tra i piccoli imprenditori, che spesso – fa notare Tripoli a parziale discolpa della Pubblica amministrazione – si fermano davanti allo screening minuzioso delle banche. Può accadere ad esempio di passare il test del ministero dello Sviluppo o di quello dell’Università e ricerca ed entrare in graduatoria, senza che a ciò corrisponda necessariamente una fideiussione bancaria o il prestito necessario per anticipare l’investimento.

La bancabilità delle imprese è una parte del problema, certo, ma da sola non può spiegare distanze che tra presentazione del progetto e prima erogazione possono superare anche tre anni. Sono centinaia i progetti d’innovazione industriale fermi al palo con il paradosso che, quando l’iter sarà finalmente sbloccato, i prototipi potrebbero addirittura risultare superati dall’evoluzione del mercato. Difficile, a queste condizioni, che si possa poi raggiungere una percentuale significativa di fatturato realizzato con prodotti nuovi o processi migliorati. Non c’è alcuna certezza dei tempi, lamentano le singole imprese, i raggruppamenti temporanei, i consorzi, le associazioni di categoria, citando tra i problemi anche la prolungata vacatio al ministero dello Sviluppo economico del nuovo direttore generale agli incentivi. Una nomina in stand by da inizio anno.

L’impasse è insostenibile, denunciano le imprese in lista d’attesa, perché le deleghe temporaneamente assegnate al ministero consentono di andare avanti solo sull’ordinaria amministrazione, mentre l’approvazione di nuovi progetti è bloccata e di riflesso è frenata l’attività d’Invitalia (ex Sviluppo Italia), soggetto gestore di molti interventi di aiuto.

Per comprendere la confusione generale del sistema, è illuminante quanto affermato in audizione alla Camera proprio da Domenico Arcuri, amministratore delegato d’Invitalia: «Alcune centinaia delle centinaia d’incentivi che sono in vigore – spiega il manager – non sono note neanche più ai ministeri che le gestiscono e tanto meno alle imprese». Invitalia è per molte imprese il primo interlocutore, l’interfaccia che filtra domande e proposte che dovranno poi avere il via libera definitivo dal ministero. Ma le misure che gestisce – rilancio aree industriali, autoimpiego, autoimprenditorialità – non vengono rifinanziate dal 2006 e per dribblare almeno in parte la penuria di risorse si sta puntando in extremis a rastrellare una fetta dei fondi europei non ancora spesi.

Intanto il Governo ha cancellato i contratti di programma senza che nel frattempo fosse reso operativo lo strumento destinato a sostituirlo, ovvero il contratto di sviluppo per grandi investimenti, e le risorse per l’innovazione che dovrebbero rappresentare la "nuova 488" non sono state ancora assegnate.Ancora una volta, inutile dirlo, si rischia di arrivare al traguardo fuori tempo massimo.