Sara R. Djelveh, il venerdì di Repubblica 20/5/2011, 20 maggio 2011
ORA CHE ABBIAMO PERSO IL POSTO CI SEDIAMO NELLE STANZETTE DI AIAZZONE
Un mese fa, il Tribunale di Torino ha dichiarato fallita la società Panmedia, che l’anno scorso aveva rilevato diversi mobilifici, tra i quali quelli del marchio Aiazzone, fondato nel 1981 dall’imprenditore biellese Giorgio Aiazzone e divenuto celebre grazie agli spot televisivi. Aiazzone è morto nel 1986, a 39 anni, in un incidente aereo. Da allora, il marchio ha vissuto alterne vicende e cambiato più volte proprietario. Fino al crack recente, per il quale sono stati arrestati gli imprenditori Giuseppe Gallo, Gianmauro Borsano e Renato Semeraro. A febbraio, un gruppo di dipendenti dei mobilifici Panmedia ha occupato un punto vendita a Pomezia, in provincia di Roma. Pubblichiamo il racconto di quei giorni scritto dalla figlia di una dipendente.
Quando ero bambina, mia madre mi portava spesso con sé a lavoro, a volte perché altrimenti non avrebbe saputo a chi lasciarmi, altre perché ero io a chiederglielo: d’altronde i suoi orari lavorativi erano tali da concedere poche ore alla nostra intimità familiare.
Mi ritrovavo così a giocare da sola in quel mobilificio enorme, perdendomi tra le decine di salotti e camere da letto, nascondendomi tra le cucine e importunando gli altri dipendenti con domande e richieste di dolcetti. Ricordo che fantasticavo immaginando che tutto il negozio fosse la mia casa, i venditori la mia famiglia e i clienti che vagavano alla ricerca di un’occasione, i miei ospiti. Me li immaginavo come persone meno fortunate, che non avevano altro posto in cui stare e ai quali io, che avevo tutto quello spazio a disposizione, avevo concesso asilo.
Quel mobilificio, situato alle porte di Roma, allora si chiamava Euromibilia: mia madre era una giovane brillante impiegata che si districava tra il lavoro e la famiglia e io avevo 5 anni.
Oggi sono passati più o meno 20 anni e la società per cui lavorava mia madre non esiste più. Il negozio di Pomezia, in
compenso, è sopravvissuto e, dopo una lunga serie di acquisizioni e rilevamenti, è stato affittato alla Panmedia S.p.A.
Panmedia, società torinese guidata dall’amministratore Giuseppe Gallo, è subentrata nell’estate del 2010 alle fallimentari B.&S. spa e Holding dell’Arredo spa, che a loro volta avevano rilevato i marchi Emmelunga (tra questi la ex Euromobilia di Pomezia) ed Aiazzone: 44 punti vendita in tutta Italia.
In questi anni, mentre cambiavano i proprietari, il nome e la fisionomia stessa del negozio in cui giocavo da bambina, mia madre è rimasta al suo posto, innamorata del suo lavoro. Come tantissime altre donne, da anni, lavora 24 ore su 24, in negozio e a casa, senza mai lamentarsi, certa che i suoi sforzi verranno un giorno ripagati.
Anche quando la B.&S. inizia, dal 2010, a non corrispondere regolarmente gli stipendi, mia madre spera che sia solo una situazione temporanea. Quando, d’estate, subentra Panmedia, che predispone con i sindacati un piano di graduale rientro nella normalità dei pagamenti, sembra che il peggio sia passato.
In realtà, la Panmedia (che da luglio controlla circa 850 dipendenti) è una società che si occupava fino ad allora di marketing pubblicitario e produzioni televisive e contava poco meno di 15 addetti. Ben presto, anche Panmedia interrompe i pagamenti ai fornitori e ai dipendenti. A dicembre del 2010 viene corrisposto lo stipendio di ottobre e, da allora, più nulla. Nel frattempo, dato che i fornitori non sono pagati, i negozi si svuotano e si moltiplicano le lamentele dei clienti che, pur avendo pagato, non vedono recapitarsi i mobili.
La situazione arriva al culmine il 12 febbraio, quando al responsabile del negozio in cui lavora mia madre viene comunicato che nei successivi 10 giorni avrebbe dovuto chiudere l’esposizione.
A questo punto, i dipendenti del vecchio negozio Emmelunga (l’allora Euromobilia) ai quali nel frattempo si sono uniti quelli del vicino punto vendita di Aiazzone, sono esasperati e occupano l’edificio in cui, fino a quel momento, avevano lavorato.
Sono andata a trovare mia madre al lavoro, nello stesso mobilificio in cui giocavo da bambina: fuori non c’erano più tante macchine parcheggiate, l’altalena che un tempo era stato uno dei miei passatempi preferiti, e le mura dell’edificio sono ora tappezzate di striscioni, bandiere e articoli di giornale.
I colleghi di mia madre mi vedono arrivare, mi riconoscono e lasciano entrare. Sono soprattutto donne, madri di famiglia, impazienti di raccontare la loro storia. Al centro della hall hanno allestito un piccolo salotto. Qualcuno gioca a carte, Anna prepara il caffè col fornello da campeggio.
Alcuni di loro li conosco da una vita, altri solo di sfuggita, alcuni ancora sono degli sconosciuti, vengono dal negozio di Aiazzone, ma sembrano far parte della famiglia da sempre. Raquel, 38 anni, valenciana di nascita, non riesce a smette-
re di fare l’allestitrice, nemmeno con il negozio chiuso, e continua a mettere in ordine il salotto. Ha un carattere forte, continua a ripetermi che non vuole carità, ma solo ciò a cui ha diritto: un lavoro per pagare la sua casa e vivere la sua vita. È stanca ma non vuole andarsene, qui non si sente sola. Rosario invece è andato a casa, dove ha due bambine piccole che lo aspettano e una moglie un po’ arrabbiata perché lui ha passato la notte fuori.
Tutti, in questa stanza, sono al culmine della disperazione: non sanno più come pagare il mutuo, l’affitto, e faticano anche a comprare da mangiare. Anna, una bella signora di 45 anni, divorziata, con 3 figli di cui 2 a carico ed un mutuo trentennale sulle spalle, vorrebbe andare in banca a richiedere una sospensione del mutuo, ma rimanda perché sa quello che le verrà risposto: per avere la sospensione bisogna dimostrare di aver perso il lavoro e questo, almeno formalmente, non è ancora avvenuto. I dipendenti di Panmedia non sono stati licenziati e dunque non possono godere degli ammortizzatori sociali previsti in queste situazioni.
L’azienda, intanto, li ha abbandonati al loro destino. A febbraio, non si è presentato nessun rappresentante a un incontro al ministero dello Sviluppo economico. L’amministratore Gallo ha inviato un comunicato e un certificato medico, affermando di non poter prendere parte alla riunione. In compenso, si dichiarava favorevole a un passaggio dell’azienda sotto amministrazione straordinaria da parte dello Stato.
Grazia lavora qui da 38 anni e gliene mancano due per la
pensione. È amareggiata: l’amministrazione straordinaria, dice, non è una la soluzione giusta: «I clienti c’erano e ci sono ancora. Lo dimostra il via vai quotidiano di persone in negozio. Potremmo continuare a vendere se solo avessimo la merce e se solo i fornitori venissero pagati. Questi signori hanno smembrato un’azienda viva per fare i loro interessi personali».
Chi sono i «signori» di cui parla Grazia? Le ipotesi sono molteplici e ognuno dà la sua interpretazione. Ormai è notte inoltrata, lascio mia madre e gli altri e torno verso casa. Durante il tragitto cerco il ricordo dei giorni felici trascorsi da bambina in quel negozio, l’immagine di mia madre giovane che mi sorride e mi dice che, un giorno, avrei capito perché non poteva rimanere con me. Ci provo, ma non ci riesco, forse perché, ora che io capisco, lei non ci riesce più e anzi crede di aver sbagliato tutto. Pensa di aver fallito «nell’unica cosa che ho fatto in tutta la mia vita», si sente vecchia, «da rottamare», crede di aver sprecato 30 anni per qualcosa che non esiste più e forse non è mai esistito. Mi ha confessato che forse ha sbagliato anche con noi, perché non avrebbe dovuto insegnarci a essere onesti, perché in questo Paese «funziona così, funziona così da sempre e io sono stata un’ingenua a non accorgermene prima».
Avrei voluto dirle tante cose, ma l’ho abbracciata e sono rimasta in silenzio. Intanto continuavo a pensare a che cosa insegnerò un giorno io ai miei figli. Se li porterò a lavoro con me e se anche io dirò loro che «un giorno capiranno» e se avremo una casa nostra in cui sentirci al sicuro.
Per ora il problema è lontano, non ho figli, né un lavoro fisso, né tanto meno una casa. Un giorno, però, vorrei avere tutto questo e già mi domando se sono un’ingenua a immaginare il mio futuro in questi termini. Forse sto ancora giocando tra i mobili senza rendermi conto che non ci sono più visitatori e le persone meno fortunate, che un tempo credevo di voler aiutare, siamo diventati noi.
SARA R. DJELVEH