GIOVANNI CERRUTI, La Stampa 20/5/2011, 20 maggio 2011
Lega, la rabbia della base “Soliti slogan e pochi fatti” - Dieci giorni ai risultati. E per dimostrare, come scrive il direttore de «La Padania» Leonardo Boriani, che «noi siamo leghisti, mica fuffa rivestita della festa», tocca ad Umberto Bossi ribadire la linea del dico e non dico
Lega, la rabbia della base “Soliti slogan e pochi fatti” - Dieci giorni ai risultati. E per dimostrare, come scrive il direttore de «La Padania» Leonardo Boriani, che «noi siamo leghisti, mica fuffa rivestita della festa», tocca ad Umberto Bossi ribadire la linea del dico e non dico. Milano? «Pisapia è un matto». Oppure no, «non ho detto che è un matto». Però votarlo sarebbe roba da matti. Si può ancora vincere, dice il Capo. Peccato che nemmeno i suoi candidati ci credano. Ormai è quasi passata la prima settimana. Novità, svolte, cambio di toni e cambio di passo? Nisba. Con un incubo, risvegliarsi tra dieci giorni con i militanti delusi e gli elettori spariti. «In temp de guera pusé bal che tera» Il vecchio proverbio milanese sembra ispirare le prossime mosse. In tempo di guerra ci sono in giro più balle che pezzi di terra, è la propaganda bellezza. E così Bossi, da Roma, esagera e rilancia una delle argomentazioni dei leghisti milanesi. «Vogliono fare di Milano una Zingaropoli». Carta già sfruttata in campagna elettorale, ma non ha portato bene, anzi. E’ una carta rischiosa. Se è vero che il problema Rom esiste è anche vero che la Lega è al governo di Milano da 18 anni, e gli elettori che non hanno rivotato Lega e Letizia Moratti sindaco pare se ne siano accorti. Ma non importa. Per recuperare i voti milanesi smarriti sulla strada di Palazzo Marino a Bossi non resta che insistere, «Pisapia vuole costruire la più grande moschea d’Europa». Non si sa come l’abbia saputo, visto che in campagna elettorale dal centrosinistra nessuno ne ha parlato, e non sta scritto nemmeno nel programma, però sembra che in Lega abbiano deciso che anche questa carta val la pena di giocarsela fino in fondo. Basta nascondere quel che i milanesi, anche quelli che votavano Lega, già sanno: che di moschee, nella città governata dai leghisti, se ne contano già sette, più o meno abusive. Insomma, altra carta a rischio. «Il mal de la pecolla» I veri milanesi, quelli che piacciono ai leghisti, conoscono bene questo motto. Parla di una malattia pericolosa, e vale anche per la politica e i voti. «Il mal de la pecolla l’è la pel del cùu che la se smolla». Insomma, quando non si riesce proprio a trattenere. O, come pare stia capitando in questo caso, quando i voti se ne vanno. Dopo 18 anni di governo la Lega è ancora ferma a slogan datati, quelli di vent’anni fa, quelli sull’immigrazione, i rom, le moschee. Merce buona per conquistare voti e la città. Merce avariata quando non riesci a realizzare quel che hai promesso. O non risulti credibile. «Chi volta ‘l cùu a Milan volta ‘l cùu al pan» Anche questo proverbio tanto caro ai milanesi può aiutare a capire. Basta ascoltare «Radio Padania» in questi giorni, e sentire come per gli elettori leghisti la delusione abbia lasciato traccia profonda, si sentono traditi. E chi volta le spalle a Milano rinuncia al pane, o ai voti. E’ vero che i leghisti hanno le sedi nei quartieri, che vanno a volantinare nei mercati anche quando la campagna elettorale non c’è, che «noi siamo gli unici sul territorio». Però questa Lega di governo, a Milano come a Roma, dopo tutti questi anni non è riuscita a tenersi i voti. E ne è sorpreso pure Bossi. «Amur da fradej, amur da curtej». Vale anche in Padania, i fratelli coltelli. Vale nel centrodestra, vale nel Pdl milanese. Perchè votare Moratti se non è mai piaciuta nemmeno ai leghisti? «Perchè, a volte, anche noi dobbiamo mandar giù una cosa che sembra Nutella e comincia con la m», era stata la sintesi di Mario Borghezio in trasferta elettorale. Imbarazzi e tensioni che continuano anche a dieci giorni dal risultato. «Dovremmo andare all’assalto tutti assieme -dice da via Bellerio un candidato leghista-, ma nel Pdl milanese c’è un gran casino, non si capisce chi comanda e decide, La Russa, Formigoni o Berlusconi?». «Vess tra ‘l gnacc e ‘l petacch» Così la Lega, quella di Bossi e dei militanti, aspetta fine mese per sapere se gli elettori torneranno oppure è l’addio. Stanno lì, nell’incertezza totale, sperando in un miracolo di Sant’Umberto, «che non ha mai sbagliato una mossa». Nell’attesa non c’è che provare a buttarne lì, tra Zingaropoli e la Moschea, quasi costretti a trascurare la carta già spesa dei terribili teppisti sfasciacittà dei Centri Sociali: non ne è stato eletto manco uno. Qualcuno che dice di sapere assicura che si andrà davvero fino in fondo, pronti a dire che Pisapia vuol fare di Milano la capitale del «Gay Pride». «Padrun cumanda, caval trota» Per i leghisti di via Bellerio comunque vada nessun problema. Bossi comanda e loro, il cavallo, trotteranno. Che nella corsa perdano spettatori e non abbiano le quote degli scommettitori a favore è assai probabile, tanto che Matteo Salvini si sente sempre meno vicesindaco e ripete che la speranza è al 10%. Ma faranno sempre come dice lui, il Capo. «La base sta con me», prova a rassicurarli Bossi da Roma, «la Lega è abbastanza unita». Devono battersi come dei Braveheart, non sono «mica fuffa rivestita». Sono i militanti, loro. Ancora dieci giorni, per scoprire se gli elettori stanno ancora con Bossi.