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 2011  maggio 20 Venerdì calendario

GRANDI EVENTI, SFILATA DI VANITA’

Il 24 ° Salone del libro di Torino, dedicato all’«Italia dei libri 1861-2011», ce lo siamo lasciato alle spalle. Ma qualche riflessione può ancora essere fatta. Solo alcuni esempi. Qualcuno fra le migliaia di visitatori sapeva per caso chi è Sandro Penna? Era al corrente della sua esistenza? Qualcuno lo ha mai letto, lo ricorda, se ne interessa? La Regione Umbria, dal momento che Penna era nato in Umbria, mi aveva invitato a parlarne, domenica pomeriggio in un piccolo spazio della zona Oval. Ero con Giuseppe Leonelli, che da anni prepara per Garzanti un’edizione commentata delle poesie di Penna. C’erano ad ascoltarci non più di quindici persone, molto attente, evidentemente le sole giuste per essere lì. Né più né meno che quindici, nella massa di visitatori della Fiera del libro, nella colta Torino, un numero di visitatori che, si dice, ogni anno è in crescita.
Ma che cosa sa questo pubblico? Che cosa cerca? Penna è uno dei più leggibili, forse il più leggibile fra tutti i poeti del Novecento italiano. Ed è anche uno dei maggiori. La sua singolarità è fuori discussione. Su di lui Pasolini e Garboli hanno scritto saggi memorabili. Ma le poesie di Penna sembra che non abbiano bisogno di spiegazioni e interpretazioni. Penna non è un poeta per professori. Ma forse il 90 per cento dei visitatori del Salone sono professori o vorrebbero esserlo. Oggi siamo tutti più o meno professori e spettatori televisivi, chi non lo è? Siamo, anche, tutti berlusconiani o antiberlusconiani… il resto viene dopo: letteratura, scienza, arte, pensiero critico e problemi mondiali. Sia chiaro, Leonelli e io non ci siamo offesi per il fatto di avere davanti solo quelle quindici persone. Ma sono arrivato a pensare due cose.
La prima è che le migliaia di visitatori in cerca di iniziative, discussioni, esposizioni, incontri non sanno che cos’è la poesia italiana contemporanea, né che cos’è un vero poeta. La seconda è che quelle quindici persone venute lì per ascoltare le poesie di Penna erano forse le più letterariamente raffinate tra quelle che giravano fra i padiglioni della Fiera. Gli altri (come si dice dei politici) avevano sempre qualcos’altro a cui pensare. Che cosa? La questione è sempre quella: cosa vuole, cosa è oggi il pubblico della cultura? Dei festival, delle mostre, dei «grandi eventi» ? Credo che si tratti di un pubblico che rispecchia fedelmente gli «attuali costumi degli italiani» . È un pubblico che non cerca i libri migliori, cerca sempre qualcos’altro al di là dei libri. Cerca il loro successo commerciale, cerca le persone fisiche dei loro autori, i personaggi che si vedono di più in televisione, vuole le alzate d’ingegno politiche, gli accoppiamenti curiosi e inusitati, vuole in sostanza il carisma mediatico. A proposito di accoppiamenti inusitati, io stesso per caso ne ho visto uno. In una sala enorme e affollata c’erano al tavolo Enzo Bianchi, il monaco di Bose, con accanto Alberto Asor Rosa, un professore di letteratura italiana sempre in cerca di qualcos’altro al di là della letteratura, della quale si è occupato da sinistra, con la mano sinistra. Dalla bocca del professore uscivano più pause che parole e le parole cadevano fuori a una a una come biglie di gomme o bolle di sapone. Ma il monaco di Bose era un eccezionale retore. La sua fonazione era fenomenale e di per sé carismatica. Inchiodava il pubblico con la ripetizione martellante di un solo messaggio: «Io ascolto, io ascolto, io ascolto» . Gli applausi sono stati scroscianti. Quell’essere singolare, quel monaco così sublime nell’umiltà infinita dell’ascoltare, conquistava gli ascoltatori con un ruggito biblico che gli contraeva la fronte e risuonava nella sala come il vero suono di una vera fede che si fa carne a ogni sillaba. In televisione un simile sant’uomo deve avere una resa magnifica. E in effetti ce l’ha. Il pubblico in televisione lo ha già visto, è per questo che accorre. Vuole emozioni religiose impastate con «il pane di ieri» e vuole la certezza che quel ruggito ascetico è anche di sinistra, come garantisce la presenza dell’ex professore comunista a fianco al priore. È certo che Sandro Penna con i priori e i politici non aveva niente in comune. Non credo che si sia mai chiesto «se ci si salva da soli o in compagnia» e quindi non poteva avere un vero pubblico, tanto meno un pubblico di massa, ma solo pochi lettori in quanto individui, ognuno con i suoi problemi singolari. Così, uno dei poeti «più italiani» del Novecento sembra quasi non esistere per gli italiani di oggi. Ho poi visto il famoso elenco dei «150 Grandi Libri» che hanno fatto l’Italia. C’è più o meno tutto quello che deve esserci fino al 1950 (ma non ho trovato Salvatore Di Giacomo né Carlo Michelstaedter). Ma nei decenni più recenti arrivano stranezze e assurdità. Compare per esempio Edoardo Sanguineti: mancano Giorgio Caproni, Giovanni Giudici, Elio Pagliarani, Amelia Rosselli. Ci sono Giovanni Macchia e Citati: mancano Contini, Sergio Solmi, Nicola Chiaromonte, Fortini, Dionisotti, Garboli, Giulio Bollati, Sebastiano Timpanaro, Cesare Cases, Geno Pampaloni. Trovo Buzzati, Testori, Flaiano, Ottieri, Campanile: ma dove sono finiti Alberto Savinio, Noventa, Delfini, Ceronetti, Piergiorgio Bellocchio? Ci sono Longanesi, Guareschi, Gianni Brera, Alberto Bevilacqua, Luciano De Crescenzo: non ci sono Nuto Revelli, Danilo Montaldi, Claudio Pavone, Mario Tronti, Giovanni Sartori, Alberoni, Scalfari… Ci sono Magris e Calasso: mancano Giorgio Colli, Severino, Vattimo, Agamben. E in questi ultimi anni che cosa ci tocca? Chi ci rappresenta? Secondo il grande elenco ci toccano Tamaro e Baricco, Camilleri e Faletti, Mazzantini e Giordano. Credevo che i critici letterari non servissero più a niente. Ma qui direi che se ne sente la mancanza.