Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2011  maggio 18 Mercoledì calendario

VENETO, VIAGGIO NEL DISTRETTO DEL MOBILE, DOVE NON CI SONO I SOLDI NEMMENO PER CHIUDERE

Negli anni ‘80 quando il paesaggioallungavaall’infinitoil binomio villetta-capannone eri arrivato in paese. Negli ultimi tre anni un centinaio di quei capannoni hanno chiuso e 300 dipendenti hanno perso il lavoro; altri 500 rischiano di perderlo entro la fine dell’anno. Benvenuti a Casale di Scodosia nel Padovano, cuore stanco del distretto del mobile tra la Bassa Veronese e Rovigo. “Almeno altre cento aziende chiuderebbero subito se solo avessero i soldi per saldare i debiti e pagare il Tfr ai dipendenti. Stanno in piedi come fantasmi. Fanno i cinesi del distretto di Cerea che è vicino a Verona: prendono gli ordini in subfornitura, lavorano in nero e pagano i dipendenti a giornata o quando possono” dice Paolo Vinaccia della Fillea Cgil.
LA FILIERA del mobile di Casale-Montagnana mette insieme 500 aziende, ma di queste almeno il 70 per cento chiuderanno entro l’anno. Eccolo il filo tirato nella luccicante tela del Veneto produttivo. Parte da qui, dalle smagliature delle micro aziende sottocapitalizzate e della viabilità lacunosa, da una programmazione di incentivi miope, dal lavoro sommerso e dalle enormi difficoltà di accesso al credito. Ma non è sempre stato così. Gli artigiani di Casale che oggi sono in ginocchio ricordano che da qui è passata la locomotiva che tirava l’Italia. Nel distretto di Casale-Montagnana i due terzi degli abitanti sono ancora artigiani, falegnami, imprenditori del legno, intaglio, verniciatura, imbottitura dei divani e decorazioni. Una filiera nata per gemmazione, che negli anni d’oro si era allargata anche nei paesi vicini (Montagnana, Urbana, Megliadino San Fidenzio). “Capitava di lavorare anche di sabato e domenica, presto presto presto, si lavorava sempre” si legge in un volantino della Fillea Cgil che riporta le voci dei lavoratori.
Questa invece è la voce di un imprenditore che sta per chiudere: “La nostra ditta è nata nel ’77 con un dipendente, poi siamo cresciuti fino ad avere 22 occupati diretti e altrettanti nell’indotto”. Fidenzio Pasotto fa armadi e scaffalature nella sua azienda, che sta nella zona industriale semideserta, o meglio “fatta da aziende-bunker dove si lavora chiusi dentro come i cinesi, non si sa quanti siano i dipendenti, non si sa che orari fanno”.
Gli affari sono andati bene, per lui come per gli altri, in quella manciata di anni buoni in cui tanti “mastri falegnami” aprivanoillaboratorionelsottoscaladi casa, chi poteva si faceva un piccolo capannone in giardino. Un’attività collettiva che oggi si sta sciogliendo come neve al sole. “Abbiamo messo in cassa integrazione tutti i dipendenti a novembre e siamo rimasti in due, io e il mio socio”. Gli affari andavano male? “Siamo fermi. Ho appena finito di leggere il giornale, adesso lo passo al mio socio. Abbiamo un magazzino pieno di merce stoccata ma mancano le commesse, vendiamo un pezzo ogni tanto. Nessuno di noi è attrezzato per fare la subfornitura di Ikea, siamo troppo poco strutturati”.
Ma la vera smoking gun per i piccoli produttori è la contrazione del volume di credito e l’inasprimento fiscale. Tradotto: l’inganno è delle banche e di chi riscuote le tasse. “Ci siamo indebitati molto, sbagliando. Ma oggi abbiamo enormi difficoltà di accesso al credito. Gli istituti guardano i risultati, e noi negli ultimi anni abbiamo bilanci da ortolani. Ho un capitale stimato di 800 mila euro in immobili, ho chiesto a Equitalia di rateizzare il debito non mi hanno ancora risposto”.
MA SONO ANCHE altre le motivazioni che hanno liquefatto il polo del “mobile in stile” padovano, che è stato uno dei distretti più proficui della zona (“Nel decennio ‘80-‘90 Casale aveva il reddito più alto della provincia di Padova e uno dei più alti della regione” dice Marco Benati della Fillea Cgil).
Ridotto all’osso dalla concorrenza dei cinesi e dalle multinazionali modello Ikea, spolpato dalla ridotta capacità di spesa delle famiglie – “il polo di Casale utilizza solo legni nazionali pregiati e lavorazioni artigianali di fino” dice Benati – e da un mancato ammodernamento della produzione. Si arriva alla carenza di liquidità che impedisce di pagare regolarmente i lavoratori: “Molte aziende sono indietro coi pagamenti degli stipendi anche di 3-4 mesi”, e che ha fatto aumentare del 241% le ore di cassa integrazione in deroga richieste nel 2011.
E QUI SCATTA la “creatività del Made in Italy”. “Molte aziende – denunciano alla Cgil – utilizzano la cassa integrazione come strumento per pagare abitualmente i dipendenti, integrando ogni mese con una piccola quota la cifra erogata dall’Inps”. Una truffa, perché i dipendenti lavorano comunque otto ore al giorno e l’azienda gliene paga solo una piccola parte. “Io come posso lavorare con questo tipo di concorrenza?” si lamenta Pasotto. “Chiediamo da anni una scuola di design e formazione che aggiorni i prodotti e le competenze dei lavoratori”, dicono alla Cgil. E poi c’è il problema dei mercati: quello interno non tira più, e l’export ha rallentato. Negli anni del boom e della ricchezza diffusa, il distretto esportava molto in Germania e nei paesi Arabi, ora l’export bussa al mercato d’acquisto russo e ai nuovi ricchi della Cina. “Le sedie del Bolshoi di Mosca vengono da Casale” dice un artigiano.
Come nella più classica selezione darwiniana i più scaltri e quelli con le maggiori capacità di adattarsi al cambiamento hanno già aperto piccoli laboratori in Cina ed esportano molta parte della produzione lì. Tutti gli altri chiuderanno quando potranno farlo, dimezzando la forza della filiera. “Chiudere costa troppo soprattutto a livello fiscale, per ora non ce lo possiamo permettere, abbiamo troppi debiti”. Fantasmi di una locomotiva che fu.