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 2011  maggio 15 Domenica calendario

OSA PENSARE (MA PECHINO TI CONTROLLA)

Una decina di giorni fa, in Tibet, a Tashi Lhumpo, la città monastica dei Panchen Lama, la seconda carica monastica buddista tibetana dopo il Dalai Lama, ho assistito a una scena paradossale: un monaco disponeva accuratamente le banconote offerte nel tempio da una folla di fedeli in maniera da rendere ben visibile, di ognuna di esse, l’effigie di Mao. Vale a dire di colui che 60 anni fa (11 marzo 1951) occupò l’allora Stato indipendente del Tibet annettendolo con un’operazione militare che osò chiamare la «pacifica liberazione del Tibet» e che doveva rendere «il popolo il reale protagonista della regione», garantendo il progresso economico e civile. Peccato che questo processo di incivilimento sia costato, non solo l’esilio, dal 1959, del Dalai Lama, ma uccisioni e violazioni dei diritti umani a non finire, compendiati nella sgradevolissima sensazione provata da chi oggi si trovi a camminare per le strade di Lhasa incappando a ogni angolo nelle truppe cinesi che presidiano capillarmente il territorio. E tutto ciò mentre i pacifici tibetani, rigorosamente vestiti in abiti tradizionali, non sembrano essere minimamente sfiorati né dalla modernizzazione né da particolari sentimenti di rivolta.

L’effigie di Mao, oltre che sulle banconote, campeggia, enorme, sulle mura della Città Proibita, a Pechino, in piazza Tienanmen. A pochi passi da lì ha appena riaperto, dopo un’immane lavoro di restauto, il National Museum of China – il più grande museo del mondo, 195mila metri quadri espositivi – con una mostra intitolata «L’arte dell’illuminismo» realizzata in stretta collaborazione con il Governo tedesco e con i musei di Dresda, Berlino e Monaco. E qui il paradosso si fa ancora più grande. La mostra è davvero ben fatta e mescola sapientemente la proposta artistica con un chiaro messaggio civile e una dichiarata volontà di diffusione degli ideali e dei valori dell’Illuminismo europeo, incurante della persino banale obiezione di chi ricorda la repressione della libertà di opinione operata sistematicamente dalle autorità cinesi nei confronti di intellettuali, scrittori e artisti inaspritasi proprio nei mesi scorsi. L’autore di best-seller Qiu Xiaolong, che ho incontrato ieri al Salone del libro di Torino, mi dice che chi si dichiara "scrittore" nei documenti per l’ingresso in Cina oggi rischia di subire un vero e proprio interrogatorio. «Un amico si era dichiarato "medico e scrittore" e se l’è cavata, arrampicandosi sui vetri, convincendo alla fine l’agente che egli scriveva solo di cose mediche».

Però camminando per le sale del museo di Pechino si respira vera aria di illuminismo e civiltà. Accanto a capolavori di Watteau, Boucher, Canaletto, Piranesi, Hogarth, Goya (con l’immancabile sonno della ragione che genera mostri), si trovano splendidi oggetti che illustrano le idee di un’era senza la quale non esisterebbero i progressi scientifici, tecnologici e di emancipazione sociale che oggi, in Occidente, diamo fin troppo per scontati. Una serie di iniziative e incontri organizzati dalla fondazione Mercator serviranno a diffondere tra il pubblico cinese l’idea di un Illuminismo che affonda le sue radici nelle idee di pluralismo, apertura mentale e tolleranza come guide sicure anche per l’avvenire, all’insegna della celebre definizione di Kant: «Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! Questo è il motto dell’Illuminismo!». Ma illuminista era in fondo anche Confucio, che peraltro ispirò i rivoluzionari francesi. Due mesi fa, proprio a fianco del museo, era stata eretta una statua in sua memoria, poi rimossa misteriosamente senza spiegazioni. Anche questo è un segno dei contraddittori tempi che sta vivendo la Cina? E che dire di Buddha. Amartya Sen sostiene che più che l’Illuminato egli andrebbe appunto definito il primo "illuminista": era un medico, e aveva a cuore un’idea di progresso umano inteso come eliminazione delle sofferenze. Oggi molti cinesi stanno riscoprendo il buddismo e simpatizzano con i tibetani. E se provassero tutti insieme a ricavare direttamente dal Buddha i principi di una modernizzazione ancora tutta da realizzare? Cari Kant, Confucio, Buddha, come vi sentite all’ombra dell’imperante icona di Mao?