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 2011  maggio 15 Domenica calendario

«ACCUSE AL RATING? MIOPIA SULLA CRISI»

«Per molti anni prima del 2009 i titoli di Stato della Grecia hanno mantenuto rendimenti degni di un Paese valutato "Tripla A", sebbene noi avessimo già iniziato a declassare i rating dal 2005. Per contro ora i rendimenti stanno salendo da settimane, iniziando ben prima che noi abbassassimo il giudizio "B". Questo significa che il rating, da solo, non influenza i mercati». Deven Sharma, presidente dell’agenzia di valutazione Standard & Poor’s, usa un esempio per smontare tutte le accuse di complotto avanzate nei confronti dei rating: a chi dice che sono le loro pagelle a distruggere gli Stati, lui oppone l’andamento dei mercati obbligazionari che sosterrebbe il contrario.

Cinquantacinque anni, indiano di nascita ma americano di adozione, Sharma è diventato presidente della società di rating nel 2007, poco prima dello scoppio della grande crisi finanziaria. Sono passati quattro anni e le accuse, contro Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch, arrivano ancora violente. Il procuratore della California, Jerry Brown, sostiene che le tre sorelle «distruggono gli Stati». Pochi giorni fa è stato il ministro greco a scagliarsi contro S&P. Ma per Sharma queste accuse, in fondo, rappresentano quasi un vanto: dal suo punto di vista scontentare così tanti potenti dimostra l’indipendenza delle agenzie di rating e smentisce chi parla di conflitti d’interessi. Lo abbiamo incontrato nella sede milanese di Standard & Poor’s.

In realtà le vostre decisioni, almeno negli ultimi tempi, influenzano eccome i mercati: ogni volta che declassate un Paese europeo volano i rendimenti dei suoi bond e crolla l’euro. Non sarebbe auspicabile un po’ più di cautela da parte vostra?

L’andamento dei rendimenti e delle valute lo decide il mercato in base a molti parametri. Il rating è solo uno di questi, ma altrettanto importanti sono la fiducia degli investitori e il rapporto tra domanda e offerta. Noi, come agenzie di rating, abbiamo il solo scopo di servire gli investitori: segnaliamo i rischi che, in base alle nostre analisi, rileviamo. Niente di più. E le assicuro che i giudizi sono molto azzeccati: in una recente analisi il Fondo monetario ha sentenziato che i rating sugli Stati sono sempre riusciti a prevedere con accuratezza i casi di default.

Si potrebbe malignare: siete voi con i vostri declassamenti a causare una spirale di vendite e, in fin dei conti, ad aumentare il rischio di default di uno Stato! Ovvio che le vostre previsioni siano azzeccate...

Quando c’è un problema economico, in uno Stato come in una società o in una banca, la cosa più importante è individuarlo. Questo è il nostro compito: forniamo un’opinione indipendente. Il problema non sta nei nostri rating, ma nel fatto che in Grecia il rischio economico sia aumentato: per questo gli spread salgono.

Dunque tutte le polemiche sono pure speculazioni politiche? Pure boutade elettorali?

I tempi sono difficili per i politici, perché sono chiamati a prendere decisioni complesse. Ma alla fine sono gli investitori a decidere che prezzo assegnare ai bond: è inutile prendersela con le agenzie di rating.

Il problema è che anche i fondi, le assicurazioni e i fondi pensione sono spesso vincolati nelle scelte di investimento al rating di un titolo: se voi declassate un Paese, tanti fondi sono costretti a vendere i suoi bond.

In parte è vero. Ed è per questo che io credo che debbano essere allargati e resi più flessibili i mandati statutari dei grandi fondi: vincolarli in schemi troppo rigidi che li obblighino a vendere o comprare solo titoli con determinati rating è sbagliato. Qualcosa sta già cambiando, specialmente negli Usa.

Voi siete molto duri con i Paesi europei, ma decisamente più teneri con gli Stati Uniti. Avete solo indicato prospettive «negative» nel rating Usa, ma continuate a mantenere un rating di "Tripla A": non è eccessivo se si guarda al super-debito e al super-deficit?

Gli Stati Uniti hanno un’economia flessibile e reattiva. Per di più sono avvantaggiati dal fatto che il dollaro è valuta di riserva mondiale. Il rating massimo, di "Tripla A", è adeguato. Il problema è solo prospettico, per questo abbiamo messo un outlook «negativo» al loro rating.

Non è che siete più teneri con il Governo Usa perché Standard & Poor’s è americana?

La nostra nazionalità non significa nulla. Abbiamo criteri di rating pubblici, dopo aver preso una decisione spieghiamo compiutamente la sua logica. Gli analisti che si occupano di Stati Uniti sono americani ma anche europei. Insomma: non c’è alcun nesso tra le nostre decisioni sul rating Usa e la nostra nazionalità.

I vostri maggiori azionisti (si veda altro articolo) sono i principali fondi Usa, che sono anche gli utilizzatori dei vostri rating. Appare curioso che un fondo come Capital World Investors sia il primo azionista di Moody’s e di McGraw Hill-Standard & Poor’s. Non c’è il rischio di ingerenze?

Questi sono i più grandi fondi al mondo. I grandi investitori hanno migliaia di miliardi di attivi in gestione: probabilmente hanno quote rilevanti in tutte le società quotate a Wall Street. Ma questo non dà loro alcun potere e alcuna influenza nelle decisioni di Standard & Poor’s sui rating.

Se Capital World avesse pesantemente investito in bond greci, forse Standard & Poor’s e Moody’s sarebbero state meno aggressive con Atene... In fondo gli azionisti possono rimuovere i top manager.

Noi non abbiamo idea di quale sia il loro portafoglio. E poi declassiamo centinaia di bond ogni anno, tanti dei quali sono sicuramente nel portafoglio dei nostri azionisti. Non ci sono pressioni, glielo assicuro. Anche perché i rating sono decisi in modo riservato e poi vengono discussi da comitati: ci sono vari livelli di controllo e gli azionisti non hanno modo di entrare nelle nostre decisioni.

Negli ultimi anni sono state realizzate molte riforme, sia in America che in Usa, sulle agenzie di rating. Crede che siano sufficienti per assicurare indipendenza, trasparenza e correttezza?

Per garantire l’indipendenza delle agenzie e per favorire l’accountability è stato fatto abbastanza. Anche sul tema della trasparenza. Si sono fatti passi avanti anche su un altro settore: ridurre la dipendenza dai rating degli investitori. Recentemente negli Usa è stata varata una legge che ridurrà gli obblighi statutari dei fondi ad investire solo in titoli con certi rating: questo è positivo. Anche in Europa la legislazione si sta muovendo in questa direzione.

Dunque le regole attuali sulle agenzie di rating vanno bene?

Sì, abbastanza. Ci sono ancora alcune problematiche. Per esempio il fatto che l’Europa non accetta i rating assegnati a Paesi che hanno legislazioni non compatibili. Questo crea disparità.

Condivide l’idea di dare agli investitori la possibilità di citare in giudizio le agenzie di rating per voti sbagliati?

Assolutamente no. Gli analisti sono già condannabili se diffondessero rating falsi, per truffe. Ovvio. Ma esporli al rischio di cause per rating sbagliati è assurdo: questo vorrebbe dire che ogni volta che noi cambiamo il voto su una società o uno stato, saremmo teoricamente condannabili perché ammetteremmo che il rating precedente era sbagliato.

Sarebbe però il giudice a decidere: un conto è dare la possibilità di fare causa, un conto è condannare.

Sì, ma il rating è una previsione sul futuro: è per sua natura passibile di cambiamento. Se ci fosse questo rischio, nessuno farebbe più il nostro lavoro.

Una delle critiche spesso rivolte alle agenzie di rating – specialmente in Italia – è che penalizzano le piccole e medie imprese solo perché sono piccole. Non sarebbe l’ora di tenere maggiormente in conto le specificità delle realtà locali?

Già lo facciamo in molti Paesi: in India, Russia, Sud Africa, Messico e in altre aree al rating «globale» associamo la possibilità di assegnare un rating «domestico» o «regionale». Questi ultimi sono ad uso e consumo del mercato interno, hanno scale diverse e tengono conto delle specificità locali.

E perché non lo fate anche in Italia che, con tante Pmi, ha l’esigenza di vedere riconosciute le sue specificità?

Potremmo farlo, ma non ci è mai arrivata una richiesta in tal senso. Se ci fosse un’esigenza da parte di investitori locali, lo faremmo.