FRANCESCO SEMPRINI, La Stampa 19/5/2011, 19 maggio 2011
I vicini difendono Ophelia “È una famiglia perbene” - Iragazzini si inseguono da un marciapiede all’altro in una corsa senza sosta, le loro voci vengono coperte dal rombo della metropolitana
I vicini difendono Ophelia “È una famiglia perbene” - Iragazzini si inseguono da un marciapiede all’altro in una corsa senza sosta, le loro voci vengono coperte dal rombo della metropolitana. Il passaggio del treno sulla sopraelevata che costeggia Mullayly Park cadenza le giornate di High Bridge, quartiere periferico di West Bronx, terra di confine dove la comunità ispanica convive con quella del West Africa. Ci sono senegalesi, ghanesi, originari del Mali e della Guinea. Proprio come «Ophelia», la cameriera del Sofitel presunta vittima del tentato stupro perpetrato da Dominique Strauss-Kahn. Percorrendo la salita della 165ª strada verso Est siamo guardati con fastidio, mai questo quartiere era stato battuto con tanta frequenza da cronisti e curiosi in cerca della casa della donna. Arriviamo all’incrocio con Gerard Avenue davanti a una palazzina «prewar», come chiamano a New York i condomini datati. Sei piani in mattoncino rosso-marrone per un totale di una cinquantina di appartamenti, senza portiere e con un grande cancello in ferro e vetri. È lì, al numero 1040 di Gerard Avenue, che si trova la casa di Ophelia, all’anagrafe Nafissatou Diallo, ma di lei non c’è traccia da sabato, dopo l’episodio in cui è rimasto coinvolto il direttore dell’Fmi. Il nome della donna non è neanche sul citofono così come quello degli altri inquilini, probabilmente le targhette sono state levate per impedire a chiunque di ficcare il naso. A destra del portone una telecamera e un cartello: «State lontani, zona sorvegliata dalla polizia». «Cercate qualcuno?», domanda Joshua, un ragazzino con i pantaloni corti e il cappello da baseball. È gentile, ci fa strada nel corridoio del piano terra verso l’appartamento del «superintendent» il tutto-fare che si occupa della gestione del palazzo. Si chiama Pedro Gomes, qualche giorno fa aveva parlato con una radio francese. Grave errore, avrà pensato, visto che al nostro arrivo si barrica in casa. Insistiamo, lui sta per cedere ma la voce di una donna, probabilmente la moglie, lo blocca: «Non aprire, sono loro, sono i giornalisti». Continuiamo a salire le scale, si sente un intenso odore di fritto ma anche di bacalao, il baccalà cucinato alla creola. Il palazzo non è sporco, i muri grigi e bianchi sono intervallati dalle porte nere appena ridipinte. È abitato da molti anziani, alcuni visibilmente malati. Secondo il New York Post il palazzo è destinato dal comune ai sieropositivi, come quello – dice il tabloid - dove abitava prima Ophelia, sempre nel Bronx. Al quarto piano c’è l’appartamento di Nafissatou, sul quale è affisso un pezzo di carta scritto a penna: «Lasciate perdere me e i miei vicini, siete tutti fastidiosi». Il clima è di esasperazione, ce ne accorgiamo quando bussiamo alle porte: nessuno risponde, tranne un inquilino del secondo piano: «Sì. La conoscevo, ma ora non è qui». Di Ophelia si sa poco, ha 32 anni e una figlia quindicenne che vive con lei in quel palazzo. «Malati di Aids qui? Non lo so proprio», ci dice Pedro, secondo cui il contratto potrebbe non essere intestato a Ophelia. «Quello che penso è che sia tutta una questione politica, anche il clamore che si è creato. Lei comunque non si vede da giorni». La diffidenza del 1040 di Gerard Street si interrompe al Chavannes Saloon, il parrucchiere lì accanto, dove tutto, dai caschi all’intonaco, sembra essersi fermato agli Anni 80. «Ha commesso una violenza e deve pagare, il fatto che sia un personaggio importante non conta nulla, anzi è un’aggravante», dice Louise, un’anziana signora dall’ampia permanente, assorta nella lettura di uno giornale scandalistico. Fuggiamo dagli sguardi infastiditi della 165ª salendo su un taxi, a guidarlo è Abdul 42 enne del Senegal: «Siete qui per la storia del francese vero? Bene, vi dico cosa ne penso io: è stato un rapporto consenziente poi lei ha capito chi era e ci ha provato». Non è d’accordo Baba Julien, originario della Guinea, frequentatore abituale del Cafè 2115, il ristorante dove lavora il fratello di Nafissatou, ad Harlem: «Blake è un bravo ragazzo e la sorella sarà come lui». Blake Diallo intanto è barricato. «Non so se uscirà - ci dice il proprietario Abrahim Fofanah, al quale il circo mediatico attorno al suo ristorante non dispiace affatto -. Intanto assaggiate il nostro agnello in salsa soul, o un espresso, è come il vostro in Italia». Non mente, né sul caffè né su Blake. Il ragazzo esce un attimo, ha lo sguardo stanco e una kefiah gialla attorno al collo: «Mia sorella si sta rimettendo, lentamente». Poi torna in cucina e al Caffè 2115 lo spettacolo continua.