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 2011  maggio 17 Martedì calendario

SPAGNA, COSI’ LA SINISTRA APRI’ LA STRADA A FRANCO

Qualche anno fa Gabriele Ranzato ha pubblicato (con Bollati Boringhieri) un libro, L’ eclissi della democrazia. La guerra civile spagnola e le sue origini (1931-1939), nel quale si proponeva (riuscendoci) di sfatare molte leggende che ancora avvolgono il conflitto che dal 1936, in Spagna, oppose le truppe del generale Francisco Franco alla Repubblica di Manuel Azaña. Adesso completa il quadro con La grande paura del 1936. Come la Spagna precipitò nella guerra civile (Laterza) in cui spiega approfonditamente come, in quell’ occasione, torti e ragioni si ripartirono con modalità assai più complicate di quanto fin qui sia parso agli storici. Il saggio si apre con alcune significative parole di Indalecio Prieto, il leader socialista che fu ministro della Difesa della Spagna repubblicana nel corso della guerra civile: «Certo, tutti vorremmo essere liberi da colpe; ma l’ autoassoluzione non può lasciarci tranquilli... Solo degli imbecilli che si credano onniscienti possono proclamarsi mondi da ogni errore o colpa, limitandosi ad accusare i nemici della parte opposta o gli amici che sono stati al loro fianco». Nelle prime pagine del libro vengono individuati, come personaggi simbolo di tale complessità, due generali che in quei frangenti furono messi a morte dalle parti contrapposte. Il primo, Eduardo López Ochoa, era stato il comandante del corpo di spedizione che - su ordine del governo - nell’ ottobre del 1934 aveva represso la rivoluzione delle Asturie. Ochoa era un moderato, negli anni Venti si era battuto contro la dittatura di Primo de Rivera e per questo aveva sofferto il carcere e l’ esilio. Ma ciò non gli valse da attenuante: nell’ agosto del ’ 36 fu buttato giù dal letto dell’ ospedale di Madrid in cui era ricoverato da un manipolo di ultras repubblicani, per poi essere trascinato in strada e passato per le armi. Nelle ore successive il cadavere fu decapitato e la sua testa, infilzata sulla baionetta di un fucile, fu esibita per le strade dal tetto di un’ automobile. Anche il secondo personaggio simbolo, Domingo Batet, era un moderato che si era opposto a Primo de Rivera per poi trovarsi - sempre nell’ ottobre del ’ 34 e sempre su mandato del governo - a stroncare l’ insurrezione indipendentista della Catalogna. Lui però fu ucciso nel ’ 36 non dai «rossi» bensì dai militari ribelli, perché si era rifiutato di passare dalla parte dei franchisti. È certo, osserva Ranzato, «che né l’ uno né l’ altro può essere inscritto in una delle due Spagne che si batterono a morte nella guerra civile». Ochoa non era «tra i militari che avevano complottato contro la Repubblica, perché anzi era disprezzato dai cospiratori per aver trattato la resa dei rivoluzionari asturiani invece di schiacciarli senza badare a costi di vite umane». Batet era stato consigliere militare del presidente della Repubblica Niceto Alcalá Zamora fino a quando questi era stato destituito dal Fronte popolare. Entrambi, Ochoa e Batet, pur nella diversità dei loro orientamenti politici, «erano servitori dello Stato, antifascisti e anticomunisti, rappresentanti di un’ area sociale e di opinione consistente, fatta soprattutto da classi medie, ma sostanzialmente interclassista, desiderosa di vivere in un sistema liberale, democratico e capitalista, incline a favorire un’ emancipazione, più o meno graduale, delle classi popolari dalla loro prevalente condizione di miseria estrema e a modernizzare la Spagna, seguendo il modello dei grandi paesi dell’ Occidente». Appartenevano cioè a quella Spagna che fu la vera vittima innocente della guerra civile. Ma riepiloghiamo sinteticamente i fatti storici che fanno da sfondo al libro di Ranzato. La Spagna aveva conosciuto dal 1923 al 1930 la dittatura del generale Miguel Primo de Rivera. Nell’ aprile del ’ 31 era stata fondata la Repubblica e per due anni aveva governato la sinistra sotto la guida di Manuel Azaña. Nel ’ 32 era stato sventato un golpe guidato dal generale José Sanjurjo. Poi, alle elezioni del novembre ’ 33, aveva vinto la destra che includeva la neonata cattolicissima Ceda (Confederazione spagnola delle destre autonome) di José María Gil Robles. Nell’ ottobre del ’ 34 erano insorte le Asturie e la Catalogna ma la rivoluzione era fallita e il fallimento aveva portato con sé una non spietata repressione. Nel febbraio del ’ 36 si erano tenute nuove elezioni vinte, stavolta, dal Fronte popolare. Il 13 luglio veniva ucciso il leader monarchico José Calvo Sotelo e quattro giorni dopo si sarebbe avuta la ribellione militare di Franco, che nel giro di tre anni avrebbe sconfitto la Repubblica. Il tutto - già prima della guerra civile - in un contesto di odio, rancori, atrocità e scontri armati. Un contesto così feroce che il giornale monarchico anticomunista «Abc», dopo il fallimento di quello che l’ autore definisce «lo scriteriato tentativo di rivoluzione» dell’ ottobre 1934, si sentì in dovere di scrivere: «L’ Esercito, la Guardia Civil, la Guardia de Asalto, tutte le forze armate dello Stato hanno il diritto (e il dovere) di difendersi rispondendo al fuoco se sono attaccate; ma nel momento in cui i ribelli si convertono in prigionieri, le loro vite debbono essere rispettate. Nessuno tranne lo Stato, e dopo opportuna sentenza, può toglierle e non senza aver loro concesso quelle garanzie di difesa che in guerra come in pace si concedono ad ogni reo nei paesi civilizzati. Sappiano coloro che nella loro esaltazione vendicativa pensano diversamente che gli saremo sempre assolutamente contrari». Ma quasi tutti volevano veder scorrere il sangue. Calvo Sotelo, in un discorso alle Cortes, protestò per il fatto che non fosse stata messa in atto nessuna esecuzione capitale nei confronti dei responsabili della rivoluzione nelle Asturie e in Catalogna del ’ 34, esaltando l’ esempio della Francia repubblicana del 1871 che con le «quarantamila fucilazioni della Comune aveva assicurato sessant’ anni di pace sociale». Nel 1935 il presidente della Repubblica Alcalá Zamora manovrò tra le divisioni della destra, non concesse a Gil Robles la guida del governo, approfittò di uno scandalo che coinvolse l’ ex presidente del consiglio Alejandro Lerroux per metterlo fuori gioco e pilotò la politica in modo da giungere alle elezioni del 16 febbraio 1936. Elezioni che erano state chieste a gran voce dalla sinistra. E fu la vittoria del Fronte popolare: 263 deputati contro i 156 della destra e i 54 del centro (ma, per quel che riguardava il numero dei voti, la sinistra ne aveva ottenuti quattro milioni e 700 mila, mentre centro e destra ne avevano conquistati cinque milioni). Nel Partito socialista, il radicale Francisco Largo Caballero, lusingato dai comunisti con l’ appellativo di «Lenin spagnolo» (in campagna elettorale, nel corso di un comizio ad Alicante quel «Lenin» di Spagna aveva detto: «Se vincono le destre non ce ne staremo buoni e non ci daremo per vinti... Se vincono le destre non ci sarà remissione, dovremo andare per forza alla guerra civile»), aveva prevalso sul moderato Indalecio Prieto. Scoccava l’ ora delle ali estreme. Nei giorni successivi a quello del voto si ebbero le cosiddette «manifestazioni di giubilo» per la vittoria del Fronte popolare. Che tipo di giubilo? Rivolte nelle carceri, dove anche i detenuti comuni ottennero di essere rimessi in libertà, violenze contro chiunque non fosse di sinistra, atti vandalici contro chiese e luoghi di culto. Anche contro i luoghi simbolo degli agi borghesi: furono presi di mira i circoli dei notabili, i loro caffè, i teatri, i club di tennis. E, man mano che passavano le settimane, le «manifestazioni di giubilo», anziché diminuire, andarono aumentando. La destra reagì. Ma, osserva Ranzato, «è certo che bastava la minima provocazione, vera o presunta, o un attacco, anche isolato e circoscritto, da parte di militanti di destra, perché scioperi e manifestazioni della sinistra operaia degenerassero in scontri con la forza pubblica, aggressioni e devastazioni». Clamoroso, soprattutto sotto il profilo simbolico, fu poi quel che accadde ad Alcaudete, nella provincia di Jaén. Il 15 marzo - un mese dopo le elezioni - ad Alcaudete parenti stretti del presidente della Repubblica Alcalá Zamora, l’ uomo (ricordiamolo) che aveva traghettato la Spagna dalla destra al Fronte popolare, con l’ accusa di aver opposto resistenza all’ invasione delle loro terre - occupazione attuata peraltro al di fuori di ogni norma di legge - furono tratti in arresto, imprigionati e trasferiti nel capoluogo tra lo scherno della popolazione dei paesi che dovettero attraversare. La condiscendenza delle autorità di polizia e dei giornali all’ aggressione di cui erano stati oggetto i parenti di «don Niceto» Alcalá Zamora «implicava», secondo Ranzato, «non solo un’ evidente offesa al presidente in carica, ma soprattutto la tolleranza, l’ ammissibilità di fatto di violazioni aperte del diritto delle persone; e della mancanza di rispetto per qualunque autorità istituzionale». E lo stesso si può dire per quanto di analogo accadeva in tutto il Paese. In seguito le sinistre fecero ancora di più. Costrinsero alle dimissioni il succitato Alcalá Zamora, ricorrendo a un «codicillo» che prevedeva la sfiducia nel caso le nuove Cortes avessero giudicato «ingiustificato» il precedente scioglimento delle Cortes stesse. Accusarono cioè il presidente di aver fatto quel che gli avevano chiesto di fare. Don Niceto capì l’ antifona e si fece da parte. Il suo posto fu preso da Azaña che - fallito, per l’ opposizione di Caballero, un tentativo di affidare la guida del governo a Prieto - lasciò la leadership governativa nelle mani del debole Santiago Casares Quiroga. Perché questo ostracismo a Prieto? La destra aveva cominciato a corteggiare l’ ala moderata della sinistra per dar vita a un governo, sempre di centrosinistra, guidato dal socialista Prieto, ma alternativo al Fronte popolare. Nel caso fosse mancato qualche voto, ci avrebbe pensato, dall’ esterno, la Ceda. E si temeva che Alcalá Zamora, nei panni di presidente della Repubblica, favorisse l’ operazione. Perciò fu destituito. Il siluramento di Alcalá Zamora (anche per i modi con cui venne attuato) fu il primo gravissimo errore delle sinistre spagnole vincitrici alle elezioni del ’ 36. Il secondo fu, da parte del successore di Alcalá Zamora, Manuel Azaña, la rimozione dei generali Francisco Franco ed Emilio Mola dalla carica di capo di stato maggiore e dal comando delle forze armate di stanza in Marocco. Ma soprattutto il loro trasferimento alle Canarie (Franco) molto vicine al Marocco stesso e a Pamplona (Mola), capitale del sanfedismo carlista, luoghi da cui era agevole ordire complotti. Terzo errore, non aver impedito che nel Paese si diffondesse - per via di occupazioni di terre, scontri, violenze - quello che Ranzato definisce il «lievito della paura». «Non c’ è dubbio - scrive lo storico - che la Repubblica democratica doveva liberare i contadini dalla loro condizione di disoccupazione quasi cronica e dalla sottomissione personale cui erano sottoposti dai grandi proprietari; ma l’ idea propugnata dalla sinistra caballerista che quello scopo si potesse raggiungere, anziché con una riforma agraria compatibile con il sistema liberal-capitalista, solo mediante una rivoluzione comunista a breve termine, l’ idea che a quella rivoluzione vittoriosa si sarebbe giunti attraverso le microguerre civili di cui si facevano protagoniste le milizie del popolo, in realtà rafforzavano le capacità di resistenza delle classi dominanti più chiuse a qualsiasi riforma e le loro possibilità di vittoria nella macroguerra civile che era in gestazione». Tanto più che nessun leader della sinistra moderata trovò il coraggio di opporsi apertamente a quelle violenze. Gli esponenti della sinistra più ragionevole, nonostante la loro sostanziale arrendevolezza, furono presto definiti «nemici» dai compagni di partito che facevano riferimento a Caballero: compagni di partito che manifestavano la loro radicalità interrompendo i comizi dei socialisti più moderati e, talvolta, malmenandoli. Per parte loro, i seguaci di Gil Robles e di Calvo Sotelo non facevano nulla per intercettare i meno estremisti del fronte opposto. Alle Cortes i deputati della destra si rivolgevano a quelli della sinistra con altezzosità, cercando di offenderli tutti, senza distinzione: «Sua signoria prima si faccia la barba, poi potrà interrompere»; «Sua signoria è una nullità, un pigmeo», dicevano rivolgendosi a loro in pieno Parlamento. Così che il fossato tra i due schieramenti si fece in quei primi mesi del 1936 sempre più profondo. Quarto e più drammatico errore delle sinistre fu il loro atteggiamento nei confronti della Chiesa. Anche qui non furono assenti colpe della Chiesa stessa. «In nessun altro Paese dell’ Europa occidentale - scrive Ranzato - la Chiesa era così insensibile alle aspirazioni di emancipazione delle classi subalterne, così irrigidita in una visione del mondo basata su gerarchie sociali immutabili, così ostinata nell’ opporre le sue opere di carità a "pretese" e diritti dei lavoratori, così incapace di rimonta rispetto a quel processo di "apostasia delle masse" che da tempo andava ridimensionando il suo ascendente sul popolo». Ma, a fronte di tutto ciò, le sinistre spagnole misero in atto contro la Chiesa «una vera e propria persecuzione religiosa». Il 17 marzo Manuel Azaña così scriveva al cognato: «Ho perso il conto delle località in cui hanno bruciato chiese e conventi». Allo scoppio della guerra civile erano ben 239 i luoghi di culto dati alle fiamme. E in più si ebbero, ad opera delle sinistre, roghi di quadri confessionali precedentemente accatastati nelle piazze; violazione dei tabernacoli e delle ostie consacrate, che erano state sparse a terra per essere calpestate; disseppellimento dei cadaveri di parroci e vescovi; tassazione dei funerali cattolici (talvolta impedimento alla loro stessa celebrazione); divieto per i simboli cristiani sulle tombe; proibizione della processione pasquale; equiparazione della Settimana Santa a una «riunione clandestina» con conseguenti arresti; impedimento delle prime comunioni dei bambini; cani lasciati liberi di scorrazzare nelle città con un crocifisso al collare. «Non occorre essere credenti - puntualizza Ranzato - per sentire e capire quanto dolore e quanto risentimento provocassero queste ferite alle coscienze religiose, cui spesso si accompagnarono altre grandi e piccole vessazioni, come il divieto o la tassazione delle immagini esposte nella pubblica via, o dei rintocchi di campana». Purtroppo questo virus contagiò in qualche modo anche esponenti della cultura liberale. Già all’ inizio degli anni Trenta alcuni tra i massimi intellettuali del Paese - in testa José Ortega y Gasset - diedero alle stampe, su «El Sol», un documento in cui condannavano sì l’ incendio delle chiese, ma aggiungevano che gli autori di quei misfatti, se ispirati da autentici sentimenti democratici, anziché bruciare quegli edifici, avrebbero dovuto «utilizzarli per fini sociali». «Questo suggerimento - chiosa l’ autore - che in sostanza equivaleva anch’ esso a una negazione della libertà di culto, soltanto meno cruenta, non solo fu diffusamente seguito nel corso della guerra civile, quando molte chiese furono destinate agli usi più diversi (magazzini, garage, mense, scuole, cantine), ma in diverse località cominciò a essere tradotto in pratica già nei mesi che la precedettero». Inoltre «forse più degli atti vandalici contro gli edifici e i simboli religiosi colpisce la quasi inesistenza di un’ opera di prevenzione e di repressione contro di essi». Cosa che provocò il passaggio dalla parte di Franco di «legioni di cattolici incolleriti dalle fiamme delle loro chiese». E fu, poi, la «leggenda delle caramelle avvelenate». Nei mesi che precedettero il pronunciamento di Franco si diffuse la voce (ovviamente infondata) che suore e dame cattoliche andavano distribuendo tra i bimbi bonbon letali che avevano già prodotto un’ ecatombe di bambini. Il deputato monarchico Juan Antonio Gamazo denunciò alle Cortes che una folla aveva aggredito monache e pie donne giudicate sospettate di aver provveduto a quegli avvelenamenti; misfatto per il quale le insegnanti di un istituto religioso erano state quasi linciate. Il deputato socialista Alvarez Angulo così rispose a Gamazo: «La colpa è vostra che avete mandato le donne con le caramelle». E le persecuzioni proseguirono nell’ ormai consueta indifferenza delle autorità di polizia. In Parlamento - a sinistra - si prese la consuetudine di rivolgersi gli uni agli altri con l’ appellativo di «compagno». Il resto dei deputati venivano definiti, ormai abitualmente, «fascisti». «Fascisti» erano i proprietari, ma anche gli impiegati pubblici; persino coloro «che si opponevano agli assalti a viaggiatori pacifici, cui si imponevano contributi per mitigare, a quanto asserito, la fame del popolo». «Roccaforte del fascismo» era la magistratura, rea di aver rimesso in libertà alcuni falangisti. In quel momento il leader della Falange, José Antonio Primo de Rivera (che sarà giustiziato ad Alicante nel novembre del ’ 36) «veniva tenuto in carcere - scrive Ranzato - sulla base di una sequenza di ben sei processi, con imputazioni il cui dosaggio può far lecitamente sospettare che ci fosse il proposito di impedirgli di tornare in libertà a breve termine e di riprendere il comando effettivo del suo movimento». Fu dato vita a un tribunale speciale composto anche da «cittadini che avessero conseguito una qualunque laurea universitaria» (a Madrid erano nella quasi totalità di sinistra), tribunale speciale che avrebbe dovuto stabilire le responsabilità penali e civili della magistratura giudicante. La destra protestò perché quei «laureati» non erano «tecnici del diritto». Il ministro della Giustizia rispose: «Preferisco l’ onesto giudizio di coloro che non sono ingolfati in disquisizioni di tipo giuridico a quello di natura esclusivamente tecnica; perché nel fondo di ogni coscienza c’ è come una sorgente d’ acqua viva, quel sentimento della giustizia immanente che sta al di sopra dei dottrinarismi». Furono poi varate leggi per «ridurre il tasso di conservatorismo della giustizia», leggi atte a colpire, scrive l’ autore, «qualunque magistrato che non si conformasse alla volontà del potere politico dominante». Vale a dire quello del Fronte popolare. A questo punto si ebbe l’ uccisione del leader monarchico José Calvo Sotelo (13 luglio 1936) e, quattro giorni dopo, l’ insurrezione militare nel Marocco spagnolo (17 luglio). Ranzato ricorda quanto Francisco Franco avesse esitato fino a poche ore prima del pronunciamento. Ma ricorda altresì gli abbagli del presidente del Consiglio Casares Quiroga, che definì gli allarmi iniziali per l’ insubordinazione in Marocco come «esagerazioni provocate dalla menopausa», per poi così concludere: «I militari si sollevano? E io me ne vado a dormire». Ranzato mette in grande risalto la «stupefacente inerzia» di Casares e di Manuel Azaña nelle ore successive al delitto perpetrato contro Calvo Sotelo. «La condotta delle autorità repubblicane fu nella circostanza malaccorta e controproducente - scrive -, le misure che esse adottarono fanno apparire una loro volontà di tacere e coprire quanto più possibile, tale da rafforzare invece che stornare il sospetto di complicità». E forse non è casuale che allo scoppio della guerra civile, mentre esponenti liberali accorrevano da tutto il mondo ad affiancare socialisti e comunisti (e anarchici) nella difesa della Repubblica iberica, i figli dei liberali spagnoli - a cominciare da quello di Ortega y Gasset - fuggirono all’ estero o, addirittura, andarono volontari a combattere nell’ esercito nazionalista. Neanche in una riga delle 316 pagine de La grande paura del 1936, Gabriele Ranzato mostra simpatia per la causa e l’ operato di Francisco Franco. Ma, a conclusione di questo importante libro, l’ autore definisce «discutibile» la perpetuazione dell’ immagine della Spagna nella primavera 1936 «come quella di un Paese di democrazia liberale accettabilmente funzionante, capace di garantire la continuità del suo sistema politico-economico al riparo da qualsiasi sovvertimento rivoluzionario, che sarebbe stato trascinato alla guerra civile solo da una sollevazione militare reazionaria e fascista». Poche, misurate parole per lasciare intendere che la storia della Spagna negli anni che precedettero (e in parte determinarono) la Seconda guerra mondiale si comincia a scrivere soltanto ora.
Paolo Mieli