Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 15/05/2011, 15 maggio 2011
LA NUOVA GEOGRAFIA. CAPIRE L’INTERAZIONE FRA L’UOMO E IL PIANETA
Italiani, vi esortiamo alla geografia! È l’ invito che viene da tanti intellettuali dei più diversi campi, dalla letteratura alla storia, dalla fisica all’ ecologia, dalla linguistica alla politica. Viviamo in un mondo ad altissima attitudine geografica, dove gli spazi si aprono davanti a noi senza limiti apparenti, ogni luogo è raggiungibile senza fatica, le partenze e gli arrivi per lavoro o per necessità sono all’ ordine del giorno. In un Paese, come l’ Italia, tradizionalmente ad altissima vocazione storicistica, questa evidenza è però più difficile da digerire che altrove. Forse da ciò deriva il paradosso per cui, mentre la globalizzazione ha ridotto i confini spazio-temporali suggerendoci di ripensare a un nuovo orientamento, la scuola, con l’ ultima riforma, ha deciso di penalizzare proprio la geografia. Un paradosso che i geografi di professione hanno preso malissimo, lanciando, l’ anno scorso, un appello in difesa della materia che ha raccolto ben trentamila adesioni ma ha centrato solo parzialmente l’ obiettivo, se è vero che i nuovi programmi hanno cancellato la geografia dagli istituti professionali e dai tecnici a indirizzo tecnologico, e imponendo anche un ridimensionamento nei licei. Intanto, il fatto che la rivendicazione dell’ Associazione Italiana Insegnanti di Geografia (Aiig) e della Società Geografica Italiana (Sgi) ha oltrepassato i limiti della categoria la dice lunga sull’ importanza crescente di una disciplina considerata finora una sorta di Cenerentola. Appunto, in definitiva che cosa studia la geografia? «La conoscenza geografica appare a prima vista come la somma di tante altre conoscenze disciplinari, ciascuna nel suo campo molto meglio definite». È l’ osservazione preliminare di uno dei maggiori geografi italiani, Giuseppe Dematteis. In realtà però, aggiunge, non si tratta di una semplice somma, ma di una combinazione, meglio una costellazione, di saperi. Il carattere di onnicomprensività è uno dei fattori di forza e insieme di debolezza della geografia. Resta comunque difficile da spiegare, osserva Gino De Vecchis, presidente nazionale dell’ Aiig, «perché nel momento in cui abbiamo più bisogno di conoscenze geografiche - con la globalizzazione, le migrazioni e la mobilità in aumento, gli incontri di culture, la riscoperta dei territori, la necessità di difendere l’ ambiente - la scuola mostri una totale inconsapevolezza: forse resiste il vecchio stereotipo per cui si tratta di una scienza immobile, come se la geografia fosse solo geografia fisica, senza sapere che in realtà si tratta dello studio dell’ umanizzazione del pianeta». D’ altra parte non ignora, De Vecchis, le colpe delle lobby accademiche, particolarmente resistenti ai cambiamenti. E cita il principe degli inviati-viaggiatori, Tiziano Terzani, il quale confessava che ogni volta, prima di partire, doveva rimettersi a studiare proprio la geografia. A Franco Farinelli, presidente della Sgi e professore a Bologna, si deve una delle sistemazioni teoriche più innovative degli ultimi anni, consegnate al saggio Geografia, un manuale privo di carte, che decostruisce l’ idea diffusa della disciplina per proporne un’ altra, legata alle origini del pensiero occidentale e insieme alle esigenze attuali: «Si è sempre pensato di tagliare il mondo in infiniti pezzi di mappe, ora la globalizzazione ha imposto di vedere finalmente il globo, la terra è diventata davvero una sfera. È cambiato il modello del mondo ed è giocoforza rivolgersi al sapere archetipico, che è un sapere appunto geografico: i sapienti, prima di Platone, erano proprio i geografi. E la ragione profonda del nuovo bisogno sociale di osservare il mondo in chiave spaziale è nata nel ’ 69, quando due computer cominciarono a dialogare tra loro: da allora esiste una entità mostruosa che è la rete». Che cosa è cambiato con la rete? «Tempo e spazio non esistono o sono categorie residuali e la nostra vita sociale è diretta e determinata da ciò che accade nella rete. Bisogna dunque rimettere in questione le categorie fondamentali attraverso una strategia spaziale che ci consenta di spiegare come funziona il mondo. Oggi i ragazzi vivono schiacciati sulla dimensione orizzontale: il tempo, per loro, è una coordinata vaga. Si dice che dipenda dal fatto che il contenitore di informazioni non è più il libro ma il web, il che implica un’ altra logica rispetto a quelle della modernità». La proposta di Farinelli ha qualcosa di paradossale: per rispondere alla richiesta, anche sociale, di geografia bisogna dimenticarsi della geografia tradizionalmente intesa: «La geografia non è più la cartografia, la nuova geografia deve inventarsi un altro tipo di rappresentazione spaziale le cui parti non siano tutte equivalenti come nelle mappe». Da qui la necessità di sostituire il concetto di spazio con il concetto di luogo, la cui singolarità non è sostituibile. «La faccia della terra è come un vestito di Arlecchino, fatto di pezzi, ognuno dei quali è irriducibile all’ altro. Marc Augé ha torto quando sostiene che esistono i non luoghi». La politica offre già dei segnali di questa diversa concezione: «La crisi della forma dello Stato territoriale ha motivazioni profonde: le politiche regionalistiche della Lega non nascono dal nulla, interpretano la riscoperta in termini locali della faccia della terra. Globalità significa fine dello spazio e recupero dei luoghi, delle culture, dei valori e dei modelli locali: è un’ idea del mondo come mosaico di luoghi individuali». Sul piano operativo, questo ripensamento della geografia comporterebbe un investimento massiccio nell’ istruzione pubblica, avverte Farinelli: «È una sfida a lungo termine perché attraverso il sapere cresca la consapevolezza del nostro rapporto con una realtà nuova. Fino a qualche anno fa, non esisteva la globalizzazione, non esistevano i voli low cost, internet, l’ e-commerce e il terrorismo internazionale, il mondo era diverso: comprendere la logica di questi cambiamenti è il primo compito della geografia. Ma la geografia non deve difendersi da nessuno, deve curare se stessa, da se stessa». È curioso che, mentre il dibattito tra gli addetti ai lavori soffre ancora di qualche resistenza, gli storici e i letterati abbiano già da tempo cominciato a darsi da fare per aprirsi a prospettive geografiche per nulla scontate. I lavori di uno studioso come Franco Moretti portano acqua geografica al mulino della letteratura. E già nel 1998 l’ Atlante del romanzo europeo 1880-1900 si muoveva in questa direzione, concentrandosi sui luoghi in cui vivono i protagonisti di Balzac, Zola, Dickens, Dostoevskij eccetera, nella convinzione «che la geografia sia una forza attiva e profonda nell’ invenzione letteraria». Ma provate a guardare in libreria quanti sono gli atlanti. Troverete di tutto: l’ atlante dei giardini, del teatro, di fisiologia umana, dell’ energia, della filosofia, del mare, delle guerre, della flora, del minimalismo, dell’ illustrazione, della moda, dell’ architettura, dei vini, della gastronomia, dell’ agopuntura, del calcio e via dicendo. È come se si volesse declinare lo scibile umano in forma geografica. Una forma mentale che investe la cultura. È dall’ incrocio dell’ esperienza comparatistica di Moretti e dell’ insegnamento di Carlo Dionisotti che è nata di recente l’ impresa editoriale dell’ Atlante della letteratura italiana Einaudi, curato da Sergio Luzzatto e Gabriele Pedullà, uno storico e un critico letterario. «La geografia - dice Pedullà - restituisce un elemento di concretezza alla storia e alla letteratura, mostrandoci i movimenti dei libri, degli scrittori, del pubblico, dei generi, delle case editrici, delle idee e dei grandi processi culturali. Un modo di reagire alla tendenza postmoderna che vedeva intertestualità dappertutto, come se la letteratura fosse una grande biblioteca che rimandava unicamente a se stessa. È una prospettiva nuova: finora la distanza temporale era la sola coordinata che esisteva tra noi e l’ opera, adesso, aggiungendo la dimensione spaziale, si aprono possibilità inaspettate di studio: è una sorta di sincronia al passato. La cartografia, che non è mai stata usata dagli storici della letteratura, consente poi di riassumere i dati in segni e percorsi leggibili subito e dunque utili anche in chiave pedagogica, mentre l’ erudizione novecentesca ha prodotto ricerche utilizzabili solo da pochi». Se lo scopo di Moretti è quello di studiare le geografie interne alle opere, uno dei maggiori storici della letteratura, Carlo Dionisotti, in un famoso saggio volle superare la lettura unitaria di De Sanctis, puntando sulla frammentazione regionale dell’ Italia prerisorgimentale e anteponendo già nel titolo il termine «geografia» a quello di «storia». Certo, era una prospettiva molto più limitata rispetto a quella dell’ Atlante, perché si trattava per Dionisotti di valutare le diverse origini e presenze di intellettuali sul piano locale, mettendone in luce le conseguenze nei rapporti umani e culturali e negli esiti filosofici e stilistici. «Nel dialogo tra storia e letteratura - dice Sergio Luzzatto - c’ è una specie di convitato di pietra, la geografia. Gli storici italiani hanno ragionato moltissimo intorno al tempo e, a differenza dei francesi (vedi Braudel), pochissimo intorno allo spazio. Da Gentile in poi, l’ epistemologia italiana si è limitata al rapporto tra storia e filosofia. La frontiera ultima, secondo Farinelli, è l’ implosione del tessuto spaziale e la valorizzazione dei luoghi, ma già il contributo dello spazio alla dimensione temporale offre risultati straordinari, come dimostra l’ Atlante». La rivincita della geografia negli studi è parallela a una richiesta sociale, per esempio a un interesse da parte delle ultime generazioni? «Direi che c’ è una attitudine dei giovani verso la prospettiva spaziale: con un clic sul computer possono localizzare un ristorante e subito averne una collocazione satellitare dall’ alto. Ho però forti dubbi sulla possibilità che questa attitudine diventi interesse consapevole: piuttosto, forse, mi pare indifferenza dovuta alla facile accessibilità. Per Marco Polo o per Matteo Ricci attraversare la Cina era un’ esperienza esistenziale che durava una vita. Oggi è tutto molto immediato: lo spazio, anche lontanissimo, è un presente istantaneo». È qui che va inserita una considerazione sul paradosso scolastico: «Se in termini di formazione non investiamo nella geografia, siamo perduti: la geografia fisica significa sostenibilità, effetto serra, acqua, temi attualissimi. Se la geografia umana e politica per la mia generazione era un concetto astratto, oggi ce l’ abbiamo in casa ogni giorno: i ristoranti cinesi e giapponesi, i contatti con gli immigrati, gli sbarchi, gli scambi elettronici... È pazzesco che la scuola pubblica ignori tutto questo». Per una innovativa definizione, anche teorica, del rapporto intimo e necessario tra storia e geografia, bisogna rivolgersi a Karl Schlögel, uno dei massimi storici tedeschi (insegna a Francoforte), concentrato sulla possibilità di Leggere il tempo nello spazio (titolo di un suo fondamentale saggio): «Per molto tempo - dice - è sembrato che l’ importanza dello spazio e della geografia fosse fortemente ridotta, persino sparita. E c’ erano dei motivi: la rivoluzione nella comunicazione e nella circolazione, la crescita degli spazi virtuali nel web. Si è parlato addirittura di un "annullamento dello spazio". Ma si trattava di un’ illusione ideologica. Lo spazio non svanisce: è, come il tempo, una condizione aprioristica della nostra esistenza». Secondo Schlögel, ci sono anche responsabilità istituzionali nel lungo oscuramento della disciplina: «La geografia è rimasta per molto tempo all’ ombra della storia, ma è chiaro che il rapporto fra storia e geografia, come quello fra tempo e spazio, è un rapporto simmetrico. Era necessaria anche una riflessione autocritica della geografia come scienza, a lungo antistorica, priva di contatti con altre discipline, fissata sullo spazio fisico-geologico». Perché, dal suo punto di vista, la dimensione spaziale vive una fase di recupero sociale e politico? «È la realtà stessa a spingerci in questa direzione. Negli ultimi vent’ anni abbiamo assistito a una rivoluzione geopolitica. La caduta del Muro di Berlino, il nuovo riassetto dei Paesi dell’ ex Cortina di Ferro, l’ ascesa di nuove regioni del mondo quali l’ Estremo Oriente... La politica ha a che fare con lo spazio, il territorio, i confini, questo è indiscutibile. Dunque possiamo orientarci nel nuovo ordinamento mondiale soltanto se possediamo solide conoscenze delle condizioni e dei rapporti spaziali e quindi geografici. È la riscoperta di qualcosa di fondamentale, a lungo dimenticato o ignorato: che il nostro mondo e la storia esistono sempre nello spazio e nel tempo».
Paolo Di Stefano