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 2011  maggio 15 Domenica calendario

RAI, LE POSSIBILI VIE D’USCITA DALLA MORSA DI MEDIASET E SKY

Rai ha un problema: non piace al suo azionista. E’ vero che l’ emittente pubblica risponde alla commissione parlamentare di vigilanza, ma poi chi tiene le chiavi della cassa è il ministro delle Attività produttive. E Paolo Romani non prende le misure più ovvie per combattere l’ evasione del canone, nemmeno quando il debito s’ ingrossa di anno in anno. Spiega il ministro: «Il canone è una delle tasse più impopolari del nostro Paese; i programmi di servizio pubblico non sono quelli che dovrebbero essere». E’ vero che anche i predecessori di Romani avevano latitato, ma la stasi della raccolta pubblicitaria dopo la caduta indotta dalla recessione (nei primi tre mesi del 2011 è sotto il budget per 30 milioni) rende più grave l’ impossibilità di sistemare i conti attraverso il recupero dei ricavi di legge.
Questa deludente performance, tuttavia, è solo l’ ultimo capitolo di una storia declinante. Nel 2000 i ricavi da spot avevano quasi raggiunto quelli da canone: 1.167 milioni di euro contro 1.311. Effetto del quinquennio con il centro sinistra al governo? Certo Prodi, D’ Alema e Amato a palazzo Chigi non avevano danneggiato la Sipra, concessionaria di pubblicità della Rai. Ma va anche riconosciuto che nella seconda metà degli anni 90 pure Mediaset era cresciuta bene. E invece, nel decennio successivo, per otto decimi berlusconiano, il parallelismo finisce. Nel 2010 i ricavi pubblicitari della Rai sono scesi a 1.029 milioni, con una flessione dell’ 11% rispetto a 10 anni prima, mentre quelli da canone sono saliti a 1.673 milioni, con un incremento medio annuo del 2,7% per un terzo dovuto all’ ampliamento della platea contributiva. La somma di canone e spot è deludente. Nello stesso periodo, con la sola pubblicità e la libertà d’ azione del privato che può anche andare all’ estero, Mediaset aumenta il fatturato da 2.332 a 4.292 milioni di euro, con un incremento dell’ 84% in 10 anni. E non parliamo di Sky che ormai supera i 3 miliardi di ricavi e ha già rimborsato un terzo degli 1,9 miliardi di euro che il suo azionista, la News Corporation, aveva investito in Italia dal 1999 a oggi.
L’ eloquenza dei numeri rivela l’ assenza di un progetto strategico per la Rai nel mondo che cambia. A partire da come le persone si rapportano alla tv. Stefano Balassone, che con Angelo Guglielmi fu il padre di Rai 3, l’ ultima, grande ma ormai vetusta innovazione della Rai quale produttrice di cultura, informazione e intrattenimento, ha annotato su «Europa» come cambino gli slogan. Nei primi anni 80, Canale 5 strillava: «Corri a casa in tutta fretta c’ è un Biscione che ti aspetta». E la Rai era felicemente "mamma Rai". Casa, famiglia, la tv da accendere per vedere quello che dà. Adesso, invece, Sky invita a uscire per farsi una pizza; il programma preferito (si cita «Vieni via con me») può essere visto in differita all’ ora più comoda. La pay tv di Rupert Murdoch esorta ad uscire di casa, a fare comunità oltre la famiglia, a non subire la programmazione ma a scegliere con l’ aiuto della tecnologia. E’ il segno di un fenomeno profondo: la televisione che, da piazza virtuale che assorbe e manipola le precedenti forme di auto organizzazione del mercato dei consumi e della politica, si fa mezzo parcellizzabile dagli spettatori che, in quanto tale, può restituire autonomia all’ iniziativa di imprese e partiti vecchi, soprattutto se nuovi. Ma poiché si tratta di tendenze allo stato nascente, il dato attuale è la sfida economica al duopolio collusivo Rai-Mediaset.
Sky fa parte di un gruppo intercontinentale e davvero multimediale, forte della lingua franca del mondo: l’ inglese. La sua scala ammortizza i costi fissi e la varietà delle sue fonti di ricavo consentono di cavalcare ai cicli dell’ economia meglio di chi, come la Rai, è più piccolo e non è diversificato. Mediaset sembra far caso a sè. Il Biscione ha sì dimezzato l’ utile nel terribile 2009, ma poi è risalito abbastanza nel 2010 e oggi, in un settore pubblicitario europeo che il Financial Times vede fatalmente in flessione dopo l’ irragionevole rimbalzo dell’ anno scorso, cresce ancora del 2%. Ma i margini del gruppo berlusconiano dipendono ancora dalla tv generalista, nonostante Mediaset Premium dia 700 milioni di ricavi. E nella tv generalista Mediaset si avvale degli speciali vantaggi del duopolio, con la Rai sempre più ancella.
In un tale contesto, ogni richiesta sul canone da parte della Rai ha il fiato corto. Il problema di fondo è l’ immobilismo della Rai, frutto avvelenato del quadro regolatorio immaginato negli anni 70 e mai cambiato nella sostanza. In Europa, nessun’ altra tv pubblica si finanzia tanto con la pubblicità. Bbc, France television, le tedesche Zdf e Ard hanno un canone ben più alto. Ed è sul fronte delle risorse che si gioca la partita della sopravvivenza della Rai. L’ esigenza primaria, che da quarant’ anni giustifica il servizio pubblico, è il pluralismo dell’ informazione e delle culture, architrave della democrazia, prim’ ancora che tratto costitutivo dell’ azienda. Il pluralismo si misura certo nel palinsesto e nei programmi, ma prim’ ancora nella posizione della Rai nella società. Nel mondo dei capitalismi e non più del capitalismo unico, nell’ Italia che ha bisogno di una pluralità di forme proprietarie per avere un’ economia più forte e flessibile, il servizio pubblico è una risorsa in più laddove la stirpe degli editori puri ha lasciato il posto a gruppi editoriali e televisivi pieni di conflitti d’ interesse economici e politici. Ma l’ intreccio canone-pubblicità, che sta consumando la Rai, non si risolve con il balletto della contabilità separata ex post.
Se non vogliono limitarsi ai pannicelli caldi, il management ora guidato da un direttore generale bipartisan come Lorenza Lei, il sindacato Usigrai, i partiti e il governo si trovano di fronte a un bivio: o la Rai servizio pubblico, alimentata solo dal canone, viene scissa dalla Rai tv commerciale, che viene privatizzata e nella pubblicità gioca ad armi pari con Mediaset, oppure la Rai diventa una holding che controlla società distinte per le due funzioni principali, e dunque senza più gli stessi handicap di oggi in pubblicità. Certo, senza un ancoraggio al mercato della pubblicità, il servizio pubblico può chiudersi in sé stesso e diventare marginale e inutilmente costoso. E poi, secondo dubbio, chi comprerebbe la Rai commerciale? L’ esperienza americana della Pbs autorizza il primo timore, ma quelle tedesca e inglese no. La storia dell’ editoria internazionale aggiunge che non servono sempre padroni: la Rai commerciale privatizzata potrebbe essere quotata in Borsa come public company con norme statutarie contro le scalate ostili. La seconda opzione, d’ altra parte, può scongiurare in radice il rischio di marginalità del servizio pubblico e non cancellare subito il vantaggio di Mediaset ove alla Rai commerciale non fossero concessi subito gli stessi spazi pubblicitari della tv privata, ma se ne facesse dipendere l’ ampiezza dall’ audience della Rai servizio pubblico. Questo si dice fuori dal duopolio. Ma dalla crisi del 1992 in qua destra e sinistra hanno ragionato di servizio pubblico solo per misurare quanto fosse pro o contro il governo.
Massimo Mucchetti