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 2011  maggio 17 Martedì calendario

E APOLLINAIRE ALLA FINE TROVÒ LA SUA DEA: RUBY


Erano giovani nelle «sere di Parigi ebbre di gin». Erano per lo più immigrati, meteci, sans papier. Erano artisti e modelle in bolletta, strafatti di droghe, hashish oppio etere mescalina, e alcol, birra vino assenzio, sempre affamati. Si ritrovavano all’inizio del Novecento a Montmartre, in rue Ravignan, nello squatt-atelier di Picasso, ribattezzato Bateau-Lavoir, ghiacciato d’inverno e rovente d’estate. Fino all’alba a discutere di tutto, specie di donne e di sesso, tra gatti, topi, cani, persino una bertuccia, per cambiare l’arte mondiale.
Erano Maurice de Vlaminck, con la sua cravatta di legno multiuso, accessorio, manganello e violino con corde di budello di gatto, anticonformista anche nell’educazione della figlia (a 9 anni fumava a tavola, rispondendo allo scandalizzato mercante d’arte Ambroise Vollard: «Ma di che t’impicci,vecchio coglione!»); André Derain, fauve pure nel vestire, abituato a dipingere con la modella sulle ginocchia, ma anche boxeur dal destro micidiale, capace di mandare ko il boss Pablo; Max Jacob, ebreo, gay dichiarato e fissato con la chiromanzia e i tarocchi, la lingua più cattiva di Parigi; Alfred Jarry, con la sua inseparabile pistola; André Salmon, signore di ogni caveau maudit; Marie Laurencin, fredda e androgina; il timido Amedeo Modigliani. Tutti amici e insieme nemici, in preda alle gelosie.
Erano, insomma, la bande à Picasso. Ma forse anche di più di Guillaume Apollinaire (1880-1918), come vuole il titolo, appunto La banda Apollinaire (Hacca, pp. 268,euro 14), della biografia letteraria dedicata al grande Apo da Renzo Paris, che la allarga fino a farne il ritratto di un’intera generazione.

Il cuore della Belle Époque

Paris salta di palo in frasca, lasciandosi sedurre da ogni divagazione per poi tornare indietro e quindi anticipare eventi e ancora aggiungendo un particolare tralasciato. Ma proprio così avvince il lettore (peccato però per i troppi refusi e la mancanza di un indice dei nomi), immergendolo di continuo in medias res, nel cuore dell’irripetibile Belle Époque. Anche quando racconta la felice infanzia romana, nel quartiere Monti, di Guglielmo Vladimiro Alessandro Apollinaire de Kostrowitzky, figlio di padre ignoto (forse dell’ufficiale borbonico Francesco Flugi d’Aspromonte) e della polacca Angelina Olgade Kostrowitzky, entraîneuse d’alto bordo e frequentatrice di bische; oppure gli anni del collegio a Montecarlo, Cannes (espulso per aver portato in classe Le Centoventi giornate di Sodoma del marchese de Sade) e Nizza, la trasformazione da bravo ragazzo studioso ad adolescente perverso e anarchico, la formazione letteraria a base di classici, romanzi cavallereschi e poeti simbolisti, i primi scritti firmati con pseudonimi, la vocazione giornalistica.

Un elettrico flâneur

È la Ville Lumière, infatti, piena di atei attratti dai maghi, il destino di Apo, elettrico flâneur delle due rive della Senna, che vi arriva nel 1899. Le biblioteche, i delinquenti, le puttane, le redazioni, i salotti borghesi, i ristoranti etnici e le pasticcerie, davanti alle quali, non avendo il denaro per comprare i dolci di cui era goloso, si sfoga sparando rumorosissimi peti: si trova come un topo nel formaggio. Anche se la primavera sbandata arriva in Renania («Ovunque Goethe, Schiller, pesci fritti e Zarathustra», scrive), per Anne Playden, illetterata governante inglese della viscontessa de Milhau presso cui fa il precettore. Lui vuole sposarla e le offre versi immortali, lei vuole protezione e soldi. Non funziona. Meglio Yvonne, la vicina di casa parigina, disinvolta e lunatica, una Melusina, o le prostitute che gli si offrono gratis, le ebree polacche che scopano come dannate.
In amore Wilhelm (la madre lo chiamerà sempre così) ha le idee chiare: le donne devono essere schiave, pronte ai comandi dell’uomo, loro indiscusso padrone. Ma la pratica è tutt’altro. Difficile dimenticare Annie, partita per sempre alla volta degli odiati Usa. Difficile soddisfare la creola Marie Laurencin, che durante l’amplesso si annoia a morte, gli occhi al soffitto, fino a mollarlo per il pittore tedesco Otto Waetjen dopo l’arresto per il furto della Gioconda.
Insomma, è il perfetto mal aimé. E tale rimarrà alle prese con la traditrice Lou, la contessa Louise de Coligny Châtillon, a cui invia lettere hard chiamandola «mia piccola schiava dal grande culo» e poesie struggenti dal fronte («È per la nostra felicità che mi preparo a morire. / Volano i proiettili come stelle filanti / procedono i prigionieri in file dolenti / E il mio cuore batte solo per te tesoro mio»), con la 22enne professoressa maghrebina Madeleine Pagès, una «fatina» vergine che gli concede solo baci e abbracci, e con la pittrice Jacqueline Kolb, detta Ruby per i capelli rossi, che sposa appena prima di morire, il 9 novembre 1918 (lo stesso giorno della scomparsa di Edmond Rostand), di “spagnola”, micidiale contro un fisico già minato dalla ferita bellica alla tempia destra e dai gas asfissianti. Proprio quando aveva trovato la sua Jolie Rousse, la donna serena, in fondo una badante, che cercava...

Pazzo per i ravioli

Più fortunato, vanterie di essere un grande chef a parte, il rapporto con il cibo e la cucina. La pasta, i ravioli, il risotto alla piemontese e i dessert preparati dalla madre, in primis. Ma anche i ristorantini di frutti di mare, scelti tramite capnomancie (l’arte di indovinare i posti più buoni dal fumo che usciva dai comignoli), dove con Vlaminck e Derain fa a gara a chi riesce a mangiare un pranzo intero e poi a ricominciare finché uno non si arrende e paga il conto. «Il suo appetito era formidabile», certificò Francis Picabia, e poteva mangiare mattoni.
Con l’alibi della fame scrive di tutto su giornali e riviste, delle avanguardie di cui si ritiene il papa e di teatro, di biciclette e dell’Europa orientale, della carne di balena e di femminismo, non disdegnando romanzi pornografici pieni di culi come Le undicimila verghe (composto nel 1905), in fondo il vero manifesto della banda. Qui il protagonista, il nobile romeno Vibescu, attratto e insieme terrorizzato dalle libertine, è Picasso, impegnato nel mantenere il patto di scatenare venti orgasmi consecutivi alla sua Culculina, pena la punizione di 11 mila verghe, ma presto si precipita nell’horror erotico in stile de Sade tra stupri, incesti e uccisioni.
Tuttavia il genio risiede nei versi allineati senza punteggiatura di Alcools (1913), nati dagli amori finiti, e poi quelli di Calligrammes (1918), in cui la guerra appare come una grande opera poetica dalla bellezza pirotecnica. Bastano questi per farsi incantare dal giovane mago innamorato e dal soldato ferito. Se poi oggi del culto di Apollinaire resta poco o nulla, seppellito, come la vecchia Europa, dalle mode yankee, è solo un motivo in più per coltivarlo.

Miska Ruggeri