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 2011  maggio 15 Domenica calendario

2 ARTICOLI - FIORENZO MAGNI E LA SUA OMBRA

Era il terzo uomo e, spesso, arrivava primo: settantanove volte in carriera. Tenacemente, faticosamente primo, contro i due miti più amati di ogni tempo. Ed è diventato anche lui un mito. Sempre come terzo. Non si fugge alle etichette, nemmeno se ti alzi sui pedali e scatti. Non possono fa rci niente i muscoli. Le etichette rimangono addosso fino alla fine, anche dopo il traguardo. Fausto Coppi era l´Airone, il Campionissimo. Gino Bartali era l´Uomo di Ferro, il Pio. E lui, Fiorenzo Magni, era il Leone delle Fiandre, il Terzo Uomo. Lo è ancora adesso, che da poco ha compiuto novant´anni. I due soprannomi se li è guadagnati con la vittoria al suo primo Giro d´Italia, nel 1948, infilandosi nel duello fra i due giganti del ciclismo mondiale, e con il triplice trionfo, dal 1949 al 1951, nel Giro delle Fiandre, solo contro tutti, ruggendo sui pedali. Il tre è un numero che gli si addice: oltre a tre Fiandre, ha vinto tre Giri d´Italia, tre Giri del Piemonte, tre Trofei Baracchi e tre Campionati nazionali.
Ma Magni, allora, correva anche con un´altra etichetta, un´ombra pesante, accompagnato da fischi e contestazioni, inseguito da una sinistra nomea: negli anni della guerra civile in Italia, dopo l´8 settembre 1943, era repubblichino ed è stato accusato di essere coinvolto in una strage. Costretto ad abbandonare la sua Toscana, si è trasferito in Brianza. Una vicenda nera, diventata rosa solo con le vittorie al Giro e con la recente scoperta di documenti che sembrano riabilitarlo.
La storia racconta che il Terzo Uomo o ha una faccia da joker come quella di Orson Welles e dice cose come nel film di Carol Reed, Il terzo uomo, uscito proprio nel ´49: «In Italia per trent´anni hanno avuto guerra, terrore, omicidi, stragi e hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera, con cinquecento anni di amore fraterno, democrazia e pace cos´hanno prodotto? L´orologio a cucù». Oppure ha la faccia di Fiorenzo Magni, la faccia di uno che ti serve un´insalata e un caffè al bar. Solo che quell´insalata è andata a scaricarla ai mercati generali alle quattro di mattina e quel caffè l´ha raccolto di persona in Brasile. Una faccia tutta fatica e lavoro, che ha sempre riconosciuto: «Gareggiare con quei due diavoli è stata una grande fortuna. Devo ringraziare Coppi e Bartali, che mi hanno insegnato a perdere».
Loro si prendevano quasi tutto, vittorie, tifo, passione. Magni si guadagnava il resto. Ha corso quando il ciclismo non era ancora del tutto uno sport e neppure uno spettacolo, ma una ciclopica opera di fachiraggio, una battaglia di eroismi e sofferenze, un racconto epico e sociale. È il sopravvissuto dell´epoca d´oro. Con Alfredo Martini, suo grande amico, è l´ultima figura carismatica di quel mondo.
Ha dovuto lottare per farsi accettare nell´Italia del dopoguerra. Ha sfidato accuse e polemiche. È stata una lunga rincorsa per rientrare in gruppo, la sua. A fine ´43 era un militare della Repubblica Sociale. Stava con fascisti e nazisti. Il suo nome è comparso nel primo fatto di sangue della guerra civile in Toscana, la battaglia di Valibona, vicino al suo paese natale, Vaiano, il 3 gennaio 1944. Un episodio che ha pesato sulla sua figura. Ora, un libro in uscita per Rizzoli lo rilegge alla luce di alcuni documenti. Si intitola Pedalare! Lo ha scritto John Foot, storico inglese, studioso di fatti italiani. In trecentocinquanta pagine riepiloga dalla A alla Z il ciclismo italiano, da Adorni a Zanazzi, dagli ultimi anni del Diciannovesimo secolo al doping industriale, passando per Giradengo, Binda, Pantani, Coppi, Bartali e naturalmente Magni.
Al Terzo Uomo è dedicato un lungo capitolo. Racconta il suo modo di correre, le vittorie, il rapporto con l´Airone e il Pio, ma anche la guerra civile, il massacro di partigiani a Valibona, le indagini e il processo di Firenze nel 1947: ventiquattro gli imputati, fra cui Magni, latitante. La richiesta contro il ciclista, nel frattempo sospeso dalla federazione, è trent´anni di galera. Il 24 febbraio viene assolto, perché non si può appurare che abbia preso parte all´azione e le altre accuse rientrano sotto l´amnistia del giugno 1946 approvata da Palmiro Togliatti, ministro di Grazia e giustizia e segretario del Pci.
Magni può tornare alle corse. Ma come nota John Foot: «Buona parte della sua carriera sarebbe stata interpretata in termini politici, una dimostrazione dell´inscindibilità, in Italia, tra sport e politica, oltre che della passione per le teorie cospirative». Tuttavia, lo storico inglese sostiene che nel mistero di Valibona oggi si è giunti a una svolta. «Nel 2010 - scrive - recuperai alcuni documenti originali presentati al processo dalla difesa, i quali rivelavano una versione inattesa della vicenda». Secondo due lettere ufficiali del 1945, durante il suo soggiorno a Monza Magni aiuta attivamente la Resistenza. Quella datata 14 giugno attesta che «il Compagno Magni Fiorenzo» con una «collaborazione non scevra di rischio [...] ha reso servizi notevoli che cooperarono alla causa della Liberazione». Eppure, chiosa Foot, nessun resoconto ha mai fatto cenno a questo aspetto del processo e al presunto e sorprendente passato di Magni, nemmeno lui stesso.
Non lo fa neanche ora, raggiunto al telefono. Parla di Coppi e Bartali, fenomeni inarrivabili che tiravano fuori il meglio di lui. Parla delle fatiche in salita e dei suoi leggendari recuperi in discesa. Di Valibona e del processo dice solo: «Quello che conta nella vita è la nostra coscienza, il resto non ha importanza». Davanti al televisore, guarda il Giro: «Certo che ci vado anche quest´anno. Sulle Dolomiti, sono lì ad aspettarli». Torna in visita al proprio passato sempre presente, su e giù per le montagne. Ha ancora quella faccia del ´56: con i denti stringe una camera d´aria legata al manubrio, clavicola e omero rotti; finisce la tappa e poi anche la corsa, sarà secondo al suo ultimo Giro d´Italia. In salita, magari arranca, ma in discesa li supera tutti. Era il migliore. Dopo quei due.
GIAN LUCA FAVETTO , Repubblica 15/5/2011

ANTAGONISMI DA DOPOGUERRA - Di antagonismi vive l´immaginario dei popoli. Anche se poi tra Juve e Inter, Loren e Lollo, Ascari e Fangio, Fiat e Alfa, Roma e Milano, Togliatti e De Gasperi, più passa il tempo e più le contrapposizioni si stemperano e ci si scopre, ci si ritrova e fatalmente ci si riconosce all´interno di una stessa mitologia. Nel caso di Coppi e Bartali venne quasi naturale di estendere la contrapposizione a un´opposta appartenenza politica. Uno con il Pci, l´altro con la Dc. Ma anche qui, specie per chi non c´era, il sospetto è che tale rafforzamento sia il corredo postumo di un´unica grande leggenda popolare, o almeno di una storia venuta dilatandosi al di là del ciclismo per assecondare e insieme addomesticare un dualismo allora ben radicato nella società.
Perché sì, certo, Bartali era molto religioso, iscritto all´Azione cattolica, terziario carmelitano, come si trova scritto. È certo che per le elezioni del 18 aprile 1948 Pio XII, in questo anticipando modalità di questo tempo, l´avrebbe voluto volentieri in lista con la Dc. E quando proprio quell´anno non solo "Ginettaccio" vinse il Tour, ma in una celebre tappa distolse l´attenzione infuocata del paese dall´attentato a Togliatti, De Gasperi volle incontrarlo e gli chiese quel che un uomo potente, ma anche prudente, chiede a una specie di eroe e cioè cosa poteva fare per esprimergli la sua gratitudine. Al che Bartali, che era un uomo molto concreto e allora già piuttosto benestante, gli rispose che gli sarebbe piaciuto non pagare le tasse per un anno. «Ma questo non si può fare», replicò il presidente. «E allora niente», concluse il corridore con un sorriso, quindi senza farla troppo lunga - oh gran bontà de´ cavallieri antiqui!
Sulla fede di Fausto Coppi nel comunismo, d´altra parte, e sulla sua adesione al Pci i documenti e le testimonianze paiono senz´altro meno rilevanti. Vero è che l´Unità faceva il tifo per lui, inviando come cronisti al Giro d´Italia addirittura due poeti, Alfonso Gatto e Gianni Rodari. Ma una delle poche pezze d´appoggio, anche se oggi più significativa di quanto potesse sembrare a quel tempo, sta nella partecipazione di Coppi, insieme con Renato Guttuso, Massimo Girotti, Claudio Villa e il giovane Enrico Berlinguer, alla giuria per l´elezione di "Miss Primavera 1950", la Miss Italia del Pci. Per cui viene da pensare che il vero e sostanzioso motivo dell´attribuzione del campione al campo della sinistra stia più che altro in quella complessa vicenda coniugale e sentimentale che lo portò, insieme con una donna già sposata, la "Dama Bianca", al secolo Giulia Occhini, a sfidare la corrente ipocrisia, pure democristoide, affrontando davvero un sacco di guai (reati e carcere per Giulia, ritiro del passaporto per lui, nascita del figlio Faustino in Sudamerica).
E però, si legge in certi splendidi pezzi di Giorgio Bocca e anche in un´acuta pagina della Storia dell´Italia repubblicana di Silvio Lanaro (Marsilio, 1992), dopo tutto tra Coppi e Bartali ce n´era già abbastanza per farci entrare anche la politica. Tanto l´uno era triste e laconico, «misero a piedi e airone sulla bici», quanto l´altro era beffardo e chiacchierone, attento a se stesso, ma soprattutto un lottatore che non si dava mai per vinto.
Opposti anche sul piano tecnico: Bartali ciclista mai domo, incandescente e volonteroso, cuore e slancio in pianura e dovunque; Coppi, passista e scalatore, era tutto gambe, muscoli, polmoni e moderne, meticolose tabelle di marcia. Due giganti, due miti, appunto, così diversi e oggi così uguali, figli di uno stesso popolo che si dedicava al ciclismo su strada con la stessa lieta passione con cui si abbandonava alla militanza anch´essa fatta di fatica, polvere e pioggia, in un dopoguerra durato troppo poco per gustarselo fino in fondo.
FILIPPO CECCARELLI, Repubblica 15/5/2011