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 2011  maggio 15 Domenica calendario

Guido Rossi, il re dei lobbisti attacca le lobby - Potere è mentire e mentire è potere. La frase, illuminante, è trat­ta da un libro di Guido Rossi ( Il ratto delle sabine ) e ben defi­nisce quello che si nasconde dietro l’attacco alla Moratti e alle lobby di Milano sferrato dal giurista ieri sulle pagine di Repubblica

Guido Rossi, il re dei lobbisti attacca le lobby - Potere è mentire e mentire è potere. La frase, illuminante, è trat­ta da un libro di Guido Rossi ( Il ratto delle sabine ) e ben defi­nisce quello che si nasconde dietro l’attacco alla Moratti e alle lobby di Milano sferrato dal giurista ieri sulle pagine di Repubblica . Si tratta di null’al­tro che dell’elogio di un modo di essere che fa dell’ipocrisia una legge e che è la firma di quel vasto partito della sini­stra radical chic, di quella gau­che­caviar di cui Rossi e il can­didato sindaco Giuliano Pisa­pia sono perfetti esponenti. Un partito per cui vengono ri­c­hieste due caratteristiche va­loriali imprescindibili: un con­to in banca invidiabile ed una faccia tosta superiore al saldo attivo del conto mede­simo. Nel caso del Pro­fessor Rossi ambedue i valori sono ai massi­mi livelli. Per un uomo della sua storia, dichiararsi contro le lobbies è co­me per una zanzara la­mentarsi del fatto che gli insetti danno fasti­dio: può anche essere vero, ma solo se riferi­to a se stesso, non di certo parlando degli interessi delle perso­ne. A una zanzara le al­tre zanzare scocciano, rappre­sentano dei concorrenti, il san­gue sarebbe cosa giusta se fos­se tutto suo, possibilmente of­ferto spontaneamente in capa­ci bicchieri, ovviamente per il loro bene. Guido Rossi in effet­ti non ha mai avuto bisogno delle lobbies essendo egli stes­so u­na gigantesca e potentissi­ma lobby. In Borsa anche i sas­si sapevano che se per una so­cietà le cose stavano metten­do­si male i telefoni da chiama­re erano solo due: quello di En­rico Cuccia e quello di Guido Rossi. Il primo serviva per usci­re dai pasticci legati alla man­canza di denaro, il secondo per uscire da tutti gli altri guai. I due infatti non si sopportava­no. Fatto sta che nel comune sentire degli operatori di Piaz­za Affari il nome di Rossi era sinonimo di salvacondotto, un po’ come la carta del Mono­poli «uscite gratis di prigio­ne », con la differenza che il professore non era affatto gra­tis. La sua firma si ritrova in tut­te le operazioni che contano da trent’anni a questa parte: da Telecom agli swap della Fiat, vere e proprie acrobazie giuridiche che, con lo stesso metro riservato ad altri sareb­bero state oggetto di scanda­lo, diventavano (anche e so­prattutto per le autorità di con­trollo e per i tribunali) regolari e perfette. La spocchia di Ros­si nel bacchettare tutto e tutti a volte lo spingeva a rimbecca­re persino altri suoi simili, co­me ad esempio il banchiere rosso Nerio Nesi, uno dei fida­ti uomini di Bertinotti nella grande finanza. Nesi nel 1996 venne tacciato di «fare gli inte­ressi dei boiardi di Stato» e re­plicò con una (per una volta sincera) intervista su Repub­blica dove affermò: «Conosco Rossi da una vita. Esattamen­te dal ’70. Entrammo insieme nel consiglio di amministra­zione della Banca popolare di Milano, quando la banca era dei sindacati. Designati dalla Cgil, Nesi e Rossi. Il rapporto è poi andato avanti, lo feci an­che nominare consulente del­la Banca nazionale del lavoro. Non ho mai negato di essere stato per trent’anni nel Psi,co­me lombardiano, coerente dall’inizio alla fine. Ma è me­glio essere legato ai partiti che alle lobby». Tutto vero, tranne un particolare: anche nel ’96 era improprio definire Rossi come «legato alle lobby», es­sendo lui come abbiamo det­to una lobby in sé. La cosa indigesta di questi soloni del capitalismo rifonda­rolo è proprio legata a questo conflitto irrisolvibile fra i loro status di intoccabili e la finta bandiera della difesa della po­vera gente che sventolano quando devono sottoporsi a quel fastidiosissimo rito delle elezioni che, se fosse per loro, abolirebbero domani con un tratto di stilografica Mont­blanc, per sostituirle con una sana divisione del potere con il criterio di un po’ a me e un po’ ancora a me. Il fatto è che questa antidemocrazia laten­te si basa su di una sincera con­vinzione di essere nel giusto, stante la probabile stupidità del corpo elettorale che nien­te può capire di come va il mondo. Giuliano Pisapia, co­me Guido Rossi rappresenta proprio questo mondo, fatto da gente che può tranquilla­mente permettersi di presen­tarsi come difensore degli abu­sivi, degli immigrati, dei dispe­rati, perché tanto sanno che questi abusivi non li incontre­ranno mai, tranquillamente difesi dalle loro vaste ricchez­ze e dagli amici «attivisti» spar­si nei punti di potere. Di certo anche Letizia Mo­ratti non è una plebea, viene esattamente da quello stesso milieu economico del grande capitale milanese, ma almeno ha scelto la strada difficile di non nascondere quello che è. È una caratteristica tipica del centrodestra di Berlusconi: i difetti ci sono ma almeno han­n­o il vantaggio di essere visibi­li a tutti e non dissimulati da un’ipocrisia talmente sfaccia­ta da risultare pericolosa. È molto meglio il lupo che ulula piuttosto di quello che si trave­ste da nonna e che ti garanti­sce che sotto le coperte si starà al sicuro dai lupi.